Vladimir Putin alla conferenza sul clima di Parigi nel 2015. Flickr
Nel corso del 2024 quasi metà della popolazione mondiale sarà chiamata alle urne: circa 4 miliardi di persone in 64 Paesi dovranno decidere da chi farsi governare. Il 2023 è stato il più caldo degli ultimi 125.000 anni: la temperatura media a livello globale è stata di 1,48°C più calda del periodo pre-industriale, prima che iniziassimo a bruciare grandi quantità di carbone, petrolio e gas. Se le emissioni prodotte dal consumo di idrocarburi non caleranno, la colonnina di mercurio continuerà a salire, con conseguenze gravissime per società ed ecosistemi.
La somma delle azioni messe in campo e degli impegni dichiarati dai singoli Paesi ad oggi non è adeguata a rispettare l’accordo di Parigi, che prevede un mantenimento del riscaldamento globale al di sotto dei 2°C, possibilmente di 1,5°C. Serve fare di più. Nel decennio in corso si decidono le sorti di gran parte del contrasto al cambiamento climatico e la scelta dei leader politici, specialmente in alcuni Paesi chiave, può fare la differenza tra un mondo più o meno vivibile.
La Russia è in rotta di collisione non solo con l’occidente, ma anche con le politiche climatiche. A metà marzo Vladimir Putin ha blindato un quinto mandato alla guida del Cremlino e non sembra avere intenzione di cambiare strategia sulla sostenibilità del sistema produttivo del suo Paese. Il giudizio di Climate Action Tracker sulle azioni climatiche messe in campo dal gigante euroasiatico è gravemente insufficiente.
Gli ultimi impegni dichiarati che Mosca ha consegnato alla convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici (UNFCCC), ovvero le NDCs (Nationally Determined Contributions, previste dall’accordo di Parigi), risalgono a settembre 2022: ridurre del 30% le emissioni del Paese entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990) e azzerarle al 2060.
Ridurle di un terzo entro fine decennio è un obiettivo estremamente poco ambizioso, poiché è stato sostanzialmente già raggiunto da tempo, non tanto per l’implementazione di una strategia di sostenibilità, ma piuttosto come conseguenza della deindustrializzazione seguita al crollo dell’Unione Sovietica.
Quanto al raggiungimento della neutralità climatica, il governo russo assume che entro il 2050 le foreste assorbiranno il doppio del carbonio che catturano oggi: pertanto, le emissioni dovranno venire ridotte solo della metà. I documenti tuttavia non forniscono dettagli su come aumenterà l’assorbimento né considerano gli impatti dei recenti incendi specialmente nella regioni forestali della Siberia. Nel 2010 il suolo e le foreste russe hanno assorbito una quota record di 720 milioni di tonnellate di CO2. Nel 2020 tuttavia si sono fermate a circa 570 Mt. L’obiettivo di rimuoverne 1.200 Mt di CO2 entro il 2050 non appare realistico.
Nel 2021 è stata approvata la strategia energetica con orizzonte al 2035: è pressoché interamente orientata all’espansione dell’estrazione, del consumo e dell’esportazione di combustibili fossili. La Russia ad oggi è il terzo produttore al mondo di petrolio (dietro Stati Uniti e Arabia Saudita) e il secondo maggiore produttore di gas (sempre dietro gli Stati Uniti), secondo Our World in Data. Nel 2021 era il primo produttore di gas al mondo e il secondo di petrolio. La guerra in Ucraina, il rimescolamento geopolitico e le sanzioni che ne sono seguite le hanno fatto perdere posizioni, ma la sua economia resta fortemente incentrata su queste due risorse.
I ricavi derivanti dalle esportazioni di combustibili fossili sono saliti fino a 1,25 miliardi di euro al giorno all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, mentre oggi sono tornati al di sotto dei 750 milioni di euro, secondo il CREA (Center for Research on Energy and Clean Air).
Entro il 2024 il 4,5% dell’energia elettrica russa dovrebbe provenire da rinnovabili non idroelettriche (solare ed eolico saranno le protagoniste della transizione energetica globale), ma secondo Climate Action Tracker l’obiettivo, già modesto di per sé, non verrà nemmeno raggiunto. Nel 2021, meno dell'1% dell’elettricità russa proveniva da rinnovabili non idroelettriche, mentre più del 60% da idrocarburi. Più dell’85% delle energia primaria russa deriva dai combustibili fossili e il 55% dal solo gas.
Per l'assorbimento di carbonio, oltre che sugli ecosistemi forestali, Putin intende ricorrere anche alle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS), mentre le uniche fonti a basse emissioni su cui sembra voler fare affidamento sono l’energia nucleare e quella idroelettrica.
La strategia per i trasporti, approvata nel 2021, prevede una riduzione delle emissioni del settore: entro il 2030 il 10% dei veicoli prodotti su suolo nazionale dovranno essere elettrici, mentre aumenta l’acquisto, soprattutto dalla Cina, di auto elettriche. Le sanzioni imposte dai Paesi occidentali tuttavia impediscono a Mosca di importare componenti tecnologiche fondamentali per far crescere la produzione interna.
Lo stesso anno il governo russo ha approvato una legge che prevede che le aziende debbano riportare la quantità di emissioni prodotte. Il provvedimento inizialmente presentava misure più stringenti, ma sono state quasi tutte ritirate in seguito alle pressioni di industriali e imprenditori. In seguito all’invasione dell’Ucraina e alle sanzioni europee, la Russia non aderisce più ad alcune misure di protezione dell’ambiente: i produttori di automobili russi ad esempio non devono più rispettare gli standard europei sull’inquinamento.
Anche per questo, le emissioni della Russia resteranno a fine decennio sostanzialmente ai livelli a cui si trovano oggi: più di 1,5 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente. Con le politiche in atto potrebbero però aumentare. Se tutti i Paesi mettessero in campo l’impegno climatico di Mosca il pianeta si riscalderebbe di un valore compreso tra i 3°C e i 4°C rispetto all’era pre-industriale.
Putin ha disertato gran parte delle ultime Cop sul clima e il suo Paese non ha aderito a molte delle iniziative che sono state proposte in quei consessi, tra cui l’impegno a ridurre le emissioni di metano (Methane Pledge), ad abbandonare l’uso del carbone, a rendere la mobilità interamente elettrica, ad abbandonare gradualmente gas e petrolio (BOGA – Beyond Oil & Gas Alliance).
Ha invece firmato un’iniziativa sul calo della deforestazione, ma non ha incluso misure corrispondenti nelle sue NDCs. Non ci sono stati poi sostanziali contribuiti ai fondi di finanzia climatica per sostenere la transizione ecologica nel mondo.
La Russia intende quindi continuare a fare pieno affidamento sui combustibili fossili, anche su quelli estratti da un Artico sempre più libero da ghiacci, per effetto del riscaldamento globale.
Mosca ha sospeso i propri pagamenti al Concilio Artico, il forum intergovernativo che promuove la cooperazione nella regione polare, e i dati russi non arrivano più ai modelli climatici che servirebbero a monitorare l’area. “La perdita dei dati delle stazioni di ricerca siberiane potrebbe essere dannosa per la nostra capacità di seguire le risposte al cambiamento climatico” ha commentato in un articolo su Nature Efrén Lopez-Blanco, modellista dell’ecosistema artico dell’università della Danimarca di Aarhus.
Inoltre la maggior parte delle popolazioni indigene della regione polare vive in Russia. Matthew Druckenmille, vice-presidente dell’International Arctic Science Committee ha commentato che anche “loro sono stati rimossi dall’equazione”.