A quattro mesi dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo un dato sembra ormai incontrovertibile: l’Europa sta virando a destra e non cambierà rotta da qui a giugno. La sterzata si sta rivelando perfino più netta di quanto fosse lecito ipotizzare appena qualche mese fa. Al punto che i sondaggi, oggi, lasciano prefigurare un potenziale (al momento solo ipotetico) cambio di maggioranza a Bruxelles, che metterebbe in pericolo, come mai accaduto prima, il “centrismo liberale” che dalla sua fondazione è alla base dell’Unione Europea: sempre ammesso che il Partito Popolare Europeo, unico “perno” politico certo della riconferma (potrebbe perdere una manciata di seggi, ma sarà comunque il gruppo più votato), decida di gettare a mare la storica alleanza con i Socialisti per sostituirli con la somma dei due gruppi di destra, entrambi in ascesa: quella radicale di Identità e Democrazia (ID) e i Conservatori Europei (ECR). I numeri ci sarebbero; sulle volontà c’è invece ancora da lavorare. Il centro studi European Council on Foreign Relations ha appena pubblicato un’analisi che, prendendo in considerazione i sondaggi realizzati in tutti gli stati membri e applicando un modello statistico già testato, prevede che tra quattro mesi, alle urne, per la destra sarà un trionfo. Secondo gli analisti di Ecfr, i partiti della destra nazionalista sono al momento in testa in 9 stati (Austria, Francia, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia), mentre in altri 9 si potrebbero piazzare secondi o terzi (Germania, Spagna, Portogallo, Svezia, Finlandia, Romania, Bulgaria, Estonia e Lettonia). E a trainare l’impennata di seggi dovrebbe essere proprio il gruppo della destra più estrema, di cui fanno parte, oltre alla Lega in Italia, il Rassemblement National di Marine Le Pen in Francia e i neonazisti di Alternative für Deutschland in Germania. Una destra nazionalista, xenofoba, populista, autoritaria, che fonda le sue radici sulla difesa dei confini, che non si fa scrupoli nel calpestare i diritti delle minoranze. Il gruppo ID, stimano i ricercatori, potrebbe passare da 58 a 98 seggi e affermarsi così come terza forza al Parlamento di Strasburgo, alle spalle del solito tandem Popolari e Socialisti. Ma quel che è più rilevante è la somma dei seggi che potenzialmente i gruppi di destra potrebbero raccogliere: oltre 170, rispetto agli attuali 141 del gruppo Socialisti & Democratici. E non è tutto, perché Viktor Orbàn, incontrastato presidente ungherese, tra i più tenaci oppositori delle attuali politiche dell’Unione Europea e “punto di riferimento” per molti nazionalisti europei, è a un passo dall’iscrivere il suo partito, Fidesz (fuoriuscito nel 2021 dal Ppe un attimo prima di essere espulso per le sue politiche illiberali), al gruppo dei Conservatori Europei (ECR): altri 14 seggi, almeno, che finiranno a servire (o a guidare, vedremo il ruolo che assumerà Orbàn) la causa della destra. La nuova maggioranza, con numeri del genere, potrebbe addirittura fare a meno dei liberali di Renew Europe. Tutto sta a capire se il Partito Popolare Europeo accetterà di aprire le porte alla destra, soprattutto quella più radicale, senza subire una profonda spaccatura interna.
Il pericolo della “normalizzazione”
È questo uno scenario verosimile? In politica nulla è impossibile, e il confine del lecito sta diventando sempre più qualcosa di labile, di “modificabile al bisogno”, al netto di qualche prevedibile imbarazzo. Per dirne una: il Partito Popolare Europeo è lo stesso che due anni fa mise alla porta Orbàn, e anche il leader ungherese, da allora, non è cambiato granché. Come se la parte più conservatrice e reazionaria del Ppe avesse nel frattempo preso il sopravvento e modificato la traiettoria politica del gruppo. Il che, com’è ovvio, avrebbe delle conseguenze. In occasione di un recente seminario dal titolo “Normalizzare l’estrema destra”, l’Università di Bielefeld, in Germania, disegnava questo scenario: «Negli ultimi anni l’ascesa di partiti politici, movimenti e gruppi populisti ed estremisti di destra è diventata un fenomeno comune, contribuendo alla diffusione del discorso, dell’immaginazione, degli atteggiamenti e dei sentimenti di estrema destra. In Europa, negli Stati Uniti, in Brasile o in India, le idee di estrema destra – combinate o meno con il populismo – stanno penetrando nelle sfere pubbliche democratiche e influenzando profondamente la politica e la società. Le ideologie di estrema destra mettono in discussione e persino contestano principi democratici fondamentali come la pluralità, l’uguaglianza e i diritti umani. Di solito si trovano al di fuori del regno della democrazia e affrontano una forte resistenza all'interno della sfera pubblica democratica. Tuttavia, con l’ascesa del populismo di destra nel nuovo millennio, il pensiero di estrema destra si è sempre più normalizzato. I populisti e gli estremisti di destra hanno assunto ruoli importanti come partiti di opposizione o addirittura ruoli di governo. Questa normalizzazione dell’estrema destra è una sfida per la democrazia, poiché cambia la percezione di ciò che è democraticamente accettabile e di ciò che è considerato "normale": e l’ampia diffusione del linguaggio razzista e sessista ne è un buon esempio». E sempre per restare all’esempio di Viktor Orbàn: sarebbe bene non dimenticare le frasi sprezzanti che pronunciò l’estate del 2022, provocando imbarazzo anche tra le fila del suo stesso partito: «Noi ungheresi non siamo una razza mista, e non vogliamo diventare una razza mista», disse in quell’occasione Orbàn. «La migrazione ha diviso in due l’Europa, o potrei dire che ha diviso in due l’Occidente. Questi paesi non sono più nazioni: non sono altro che un agglomerato di popoli».
La domanda centrale resta una: l’ingresso dell’estrema destra radicale nell’alleanza di governo dell’Unione Europea potrebbe diventare una minaccia concreta per la stessa sopravvivenza dell’UE?Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali, ritiene che alla prova del voto gli europei abbiano gli anticorpi necessari per “assorbire” l’ondata della destra populista: «Non aspettatevi che i risultati delle elezioni europee di giugno differiscano molto da quelli del 2019», scriveva Tocci lo scorso dicembre sul magazine dell’istituto politico Chatam House. «Relativamente parlando, i partiti conservatori potrebbero andare meglio e i partiti verdi peggio. Tuttavia, la maggioranza assoluta che voterà per il prossimo presidente della Commissione sarà probabilmente la stessa di quattro anni fa: conservatrice, socialista, liberale, verde ed europeista. La continuità, piuttosto che lo sconvolgimento, è la scommessa più sicura. Assai più preoccupato Rob Jetten, politico olandese, del partito liberale D66, affiliato a Renew Europe: «Stiamo combattendo queste elezioni per difendere la libertà contro la tirannia», ha sostenuto pochi giorni fa durante un comizio a Bruxelles. «Se normalizziamo politici come Le Pen, Orbán o Wilders, corrompiamo la libertà. Dobbiamo cambiare le cose oggi. È ora di svegliarsi».
Le mani della destra sulla protesta dei trattori
Un’altra incognita riguarda la compattezza della destra: perché di destre ce ne sono tante, e variegate, e perfino in profondo contrasto tra loro (in Francia, per fare un solo esempio, il partito di destra Les Républicains rifiuta qualsiasi “contatto” con il Rassemblement National). L’ha spiegato, al Guardian, Georgina Wright, ricercatrice presso il centro studi Institut Montaigne, con sede a Parigi: «Finora i partiti di estrema destra europei, che già nel 2019 avevano fatto registrare progressi notevoli, non sono stati in grado di influenzare in modo significativo il processo decisionale dell’UE per il semplice motivo che non sono riusciti a cooperare tra loro. Anche se molto può cambiare da qui a giugno». Destra che tuttavia ha saputo trovare compattezza e coesione nell’animare e cavalcare la cosiddetta protesta degli agricoltori (o dei trattori). Un movimento che spesso si è autodefinito “apolitico”, e che dunque diventa facile preda dei populismi che s’impossessano delle loro istanze (organizzandole, coordinandole) per usarle come ariete contro le istituzioni europee. In Germania i neofascisti di AfD hanno “usato” gli agricoltori per attaccare il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz, mentre in Francia Jordan Bardella, presidente del Rassemblement National, il partito di Marine Le Pen, usa lo stesso metodo per randellare il presidente Emmanuel Macron, accusandolo di voler «uccidere la nostra agricoltura» e scagliandosi contro quella che ha definito «ecologia punitiva». Secondo Marion Maréchal, nipote di Marine Le Pen e “stella” del partito di estrema destra Reconquête, ha sostenuto che «è stato il Green Deal europeo e il suo tsunami di regole ad alimentare l'indignazione degli agricoltori per la protesta a Bruxelles».
Scrive il quotidiano Politico: «I sondaggi suggeriscono che il legame tra agricoltori e populisti sta contribuendo a rafforzare l'appeal dei partiti di estrema destra tra i quasi nove milioni di agricoltori del blocco. Il referendum contro i governi che evitano la produzione locale per importazioni più economiche dall’Ucraina e l’impennata delle tasse sul gasolio, insieme all’inflazione, significano che il crescente malcontento tra gli agricoltori si sta diffondendo in tutto il continente. La pressione della destra sta già spingendo i gruppi conservatori più tradizionali, come il Partito Popolare Europeo, di centro-destra, ad andare all'attacco contro il Green Deal, che è stata una politica distintiva della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e del suo ex zar dell'ambiente, il socialista Frans Timmermans. Alla fine dell'anno scorso, il PPE aveva guidato una ribellione contro la legge sul “ripristino della natura”, mancando di poco l’affossamento del progetto, mentre ora chiede di sciogliere il divieto del 2035 sul motore a combustione».
Dunque c’è sicuramente il Green Deal nel mirino della destra radicale, qualora riuscisse a scalzare Socialisti e Verdi dalla stanza dei bottoni di Bruxelles, nonostante l’accordo appena raggiunto a Dubai alla Cop 28, il vertice sul clima delle Nazioni Unite, che ha chiesto, con l’approvazione di oltre 200 nazioni, la “transizione dai combustibili fossili e un’azione accelerata in questo decennio”. Ma i temi “caldi” sono innumerevoli. C’è il posizionamento dell’UE sulle guerre in corso (Ucraina e Gaza), come anche le questioni legate alla sicurezza internazionale; c’è il tema dei rapporti con Cina, Russia e Stati Uniti (e attenzione a una possibile saldatura tra l’avvento della destra in Europa e un ritorno di Trump alla Casa Bianca), la politica energetica e climatica, la questione migranti (bandiera e slogan di gran parte dei partiti dell’estrema destra) oltre alla delicata partita dell’allargamento dell’UE nei Balcani occidentali (l’adesione di Albania e Macedonia del Nord, ma anche la gestione delle tensioni tra Serbia e Kosovo). Molti temi, molte incognite. Ma anche molta rabbia, e una violenza latente, come una minaccia. Interessante l’analisi fornita da Gerard Delanty, sociologo britannico e professore di sociologia e pensiero sociale e politico presso l’Università del Sussex: «Le proteste di piazza sono il prodotto della crescente instabilità delle società occidentali a causa delle disparità di reddito, del declino dello status sociale per molti lavoratori che hanno sperimentato la stagnazione del reddito e la diminuzione delle opportunità. La base di sostegno generalmente non proviene dai più poveri della società, ma da coloro che percepiscono che stanno vivendo un declino delle loro fortune. E in tempi di crisi, le persone sono più propense ad abbracciare politiche autoritarie rispetto a quelle progressiste».