SOCIETÀ

Epidemiologia di lungo corso: il progetto Ninfea

Quindici anni insieme. Non fisicamente, nella quotidianità, ma come coorte seguita da un team di ricercatori dell’Unità di epidemiologia dell’Università degli studi di Torino e dall’Azienda ospedaliera universitaria della stessa città.

Sono 7500 gli adolescenti e le loro mamme protagonisti del più consistente studio di epidemiologia di lungo periodo mai fatto in Italia e uno dei più significativi anche a livello europeo. Uno studio fatto sfruttando la potente capacità della rete Internet di costruire una ampia base di contatti, di mantenerli attivi nel tempo, e di consentire la raccolta di dati in modo facilitato attraverso una interfaccia web invece di chiedere alle persone di recarsi in un ambulatorio di persona. Una modalità che ha permesso di ampliare molto il numero dei soggetti coinvolti e quindi di aumentare la capacità di monitoraggio sul territorio.

Quest’anno il progetto Ninfea (Nascita e infanzia: gli effetti dell’ambiente) ha tagliato un traguardo importante, quello dell’adolescenza dei suoi partecipanti, e nel farlo racconta l’idea e lo sviluppo del lavoro in un documentario disponibile online. 

“NINFEA. Nascita e sviluppo di un progetto di ricerca”

Il documentario, della durata di 25 minuti, è stato presentato all’interno del programma Sharper - la notte dei ricercatori a Torino il 27 novembre scorso, una edizione completamente digitale dell’ormai abituale appuntamento annuale con la scienza.

 

 

L’idea dello studio di coorte è stata inizialmente proposta nel 2002 da Lorenzo Richiardi, allora PhD presso il Karolinska Institute di Stoccolma e oggi ordinario di srtatistica medica all’Università di Torino. Studi di questo tipo sono ancora difficili da mettere in piedi sia sotto il profilo organizzativo che sotto quello economico. Nel 2005, Ninfea è stato un progetto pioneristico in Italia, che è riuscito a partire in prima battuta grazie a un finanziamento della Compagnia di San Paolo prima di ottenere finanziamenti dalle istituzioni nazionali e poi da diversi progetti europei.

Fare uno studio di coorte significa seguire nel tempo un gruppo di persone accomunate da una caratteristica comune: l’anno di nascita, in questo caso. Il vantaggio di uno studio di questo tipo è che consente di monitorare diversi dati nel tempo osservando, ad esempio, quali di questi possano o meno costituire fattori di rischio o talvolta addirittura dei determinanti nello sviluppo successivo di malattie o alterazioni dello stato di salute. 

Uno studio di coorte permette di ricostruire la catena degli eventi che portano a una certa condizione di salute senza la distorsione dovuta al fatto che se ne conosce già l’esito.

Nel momento in cui la malattia si manifesta, la lettura dei dati precedenti e dei fattori di rischio è necessariamente influenzata dal fatto che si tende a cercare una spiegazione della malattia stessa. Raccogliere i dati senza sapere che significato potrebbero avere in futuro consente di inquadrarli e valutarli senza il bias dovuto al fatto di conoscerne gli sviluppi successivi e gli esiti finali.

Ad esempio, Ninfea ha permesso di collegare il peso materno in gravidanza, l’insorgenza di infezioni vaginali o l’uso di antibiotici da parte della madre con il peso ed eventualmente il rischio di obesità negli anni della crescita dei bambini. Oppure di vedere e anche misurare l’effetto di una serie di fattori come l’alimentazione, lo stato socio-economico, la situazione di povertà e di disuguaglianza sullo sviluppo dello stato di salute. Nel grafico qui sotto, ad esempio, vediamo la raccolta dei dati sull’alimentazione in gravidanza.

Da qui sono nati anche molti lavori interessanti come la possibilità di correlare diversi dati ambientali, come ad esempio l’inquinamento acustico o l’esposizione o meno ad aree verdi, con la salute. Un altro esempio, qui sotto, riguarda l’insorgenza di malattie e infezioni respiratorie.

Insomma, uno studio di questo tipo permette di raccogliere davvero un patrimonio di dati che possono poi essere incrociati, confrontati e utilizzati per produrre moltissima conoscenza su quello che influisce e determina la nostra salute nel corso del tempo. 

Questioni di metodo

Ninfea ha dovuto misurarsi con diverse questioni metodologiche. 

In primo luogo, oltre ai dati dei questionari i ricercatori necessitavano anche di dati genetici e biologici. E così hanno dovuto lavorare per mettere a punto kit di facile utilizzo per la raccolta di campioni biologici in modo efficace da parte dei partecipanti. I kit sono stati spediti ai partecipanti in diverse città d’Italia, con le istruzioni per l’uso. I campioni, facili da raccogliere, sono stati rispediti dalle mamme dei bambini coinvolti nello studio via posta. 

Ma soprattutto, il progetto è stato anche un grande test per l’uso del web in ambito epidemiologico-sanitario. Fondamentale per la riuscita del progetto è stata una metodologia di partecipazione innovativa, basata su più cicli di raccolta dati via web, in formato digitale, grazie alla compilazione di questionari predisposti dai ricercatori.

È stato necessario mettere a punto protocolli per la raccolta e gestione dei dati testando modalità diverse per garantire la privacy, l’accessibilità, gli errori. Di recente, il fatto di avere una rete già consolidata di contatti e di partecipanti ha anche permesso di fare un passo in più: durante il recente lockdown il progetto ha potuto raccogliere dati su come i ragazzi e le loro famiglie stessero vivendo la pandemia, e perfino su come riuscissero o meno a informarsi e usare la rete per validare le informazione sul Covid. Uno studio nello studio. 

Innovazione di idea, di metodo e di partecipazione

Nel documentario, Lorenzo Richiardi spiega che l’idea di usare il web è stata centrale per due motivi. In primo luogo, ha consentito di fare una ricerca a un costo molto più basso rispetto alle metodologie di rilevazione tradizionali, che rendono gli studi di coorte molto costosi e impegnativi anche per la quantità di tempo e di personale necessario a raccogliere le informazioni attraverso colloqui con i partecipanti. E ha anche permesso di non restringere geograficamente la coorte, perché grazie alla rete si potevano selezionare persone di tutta Italia e quindi allargare molto l’osservazione includendo anche fattori ambientali ben diversi. 

Fondamentale alla riuscita del progetto è stato fin dall’inizio il coinvolgimento nel team di ricerca di informatici che potessero sviluppare interfacce e metodi adatti alla raccolta dei dati, in un’epoca in cui il web era ancora relativamente poco utilizzato dalla gran parte della popolazione italiana.

Era un web molto diverso da quello di oggi: non c’erano i social, non esisteva l’iPhone, non era così onnipresente come oggi

I questionari sono stati prodotti in modo da essere molto chiari e senza ambiguità, compilabili in modo semplice per le mamme coinvolte e fatti e compilati ogni due anni. Il primo questionario è stato compilato durante la gravidanza, poi a 6 mesi dopo la nascita, a 18 mesi e da lì in poi ogni due anni circa. Ai 13 anni di età dei ragazzi, il questionario conteneva anche domande da rivolgere direttamente a loro. E proprio per iniziare a interagire anche direttamente con i ragazzi e renderli partecipi del loro ruolo importantissimo nello studio, i ricercatori hanno aperta una sezione apposita del sito, Ninfea teen. Una sezione in cui si parla direttamente ai ragazzi, spiegando loro cos’è uno studio di coorte, come ci sono entrati e cosa possono fare per continuare a contribuire a questa importante raccolta di dati. 

Una strategia vincente

Ninfea dimostra che mettere in piedi una filiera di raccolta dei dati in modo corretto, con una visione di lungo periodo e nell’ottica di rendere quelle informazioni accessibili a tutte è una strategia vincente. 

Lo è sotto il profilo scientifico perché permette di potenziare enormemente i risultati e quindi l’impatto di un singolo progetto allargandolo a future collaborazioni e quindi a maggiori possibilità di continuare il lavoro e renderlo sempre più rilevante. 

Nel 2017, ad esempio, Ninfea è entrato a far parte del Child Cohort Network del LifeCycle Project-EU, un progetto europeo di durata quinquennale finanziato con 10 milioni di euro dalla Commissione Europea. Il Child Cohort Network riunisce 19 coorti di diversi paesi europei per un totale di oltre 250mila persone monitorate, bambini e genitori che guarda a una range molto ampio di fattori di rischio per la salute delle persone, da quelli ambientali a quelli socio-economici, da quelli relativi alle storie personali, per esempio alle migrazioni forzate, a quelli che sono specifici della vita in ambiente urbano e via dicendo. 

Al 2020, il progetto ha prodotto già più di 100 pubblicazioni scientifiche su molti aspetti diversi, dagli effetti dell’ambiente urbano sui rischi cardiologici dei bambini, a una analisi multipaese sui fattori genetici che possono influire sulle crisi epilettiche e molto altro, incluse linee guida e raccomandazioni per le istituzioni sanitarie. 

Ma lo è anche sotto il profilo culturale. I ricercatori sono infatti ben consapevoli, fin dall’inizio del progetto, dell’importanza di raccogliere i dati seguendo una metodologia molto chiara e condivisa, e anche dell’importanza di poter confrontare quei dati con altri progetti analoghi. Nel contesto del Child Cohort Network lo sforzo principale è proprio volto a costruire sistemi armonici di raccolta e di confronto dei dati, e di restituzione degli stessi in formato aperto anche al di fuori del progetto stesso. Si tratta dunque di opendata, resi disponibili all’intera comunità scientifica ma anche ad altri soggetti interessati, a partire dagli stessi cittadini che per esempio fanno parte del progetto. In una logica di trasparenza, di costruzione di fiducia tra società e comunità scientifica che consenta ad esempio di capire anche il senso e la logica dietro le policy di sanità e le linee guida di salute pubblica, i dati servono a condividere le ragioni delle scelte.

Dati aperti, confrontabili, accessibili: un esempio da seguire

In una logica di restituzione, di condivisione trasparente, anche Ninfea ha scelto di aprire i suoi dati, e dunque sul sito c’è una sezione opendata che permette non solo di visualizzare gli andamenti, i risultati, le correlazioni trovate nel corso degli anni, ma anche di conoscere ad esempio il ruolo, il peso, l’impatto di alcuni fattori sulla salute. Un modo, per i ricercatori, di restituire in primo luogo ai partecipanti, alle mamme e ai ragazzi, informazioni utili a ragionare sul proprio stato di salute, sugli stili di vita e sui fattori di rischio. E un modo per stimolare anche l’uso di questi dati da parte di altre realtà, scientifiche ma non solo, per sviluppare azioni, piani di intervento, policy che intervengano in modo efficace sui fattori di rischio per la salute.

Un’idea, quella della trasparenza dei dati e della necessità di condividerli in modo che siano utilizzabili e confrontabili anche da parte dei non addetti ai lavori, che sta alla base di tante azioni anche recenti da parte di diversi soggetti della società civile italiana, dai media alle associazioni che si occupano di trasparenza e impegno civico. 

Un’idea ancora troppo poco applicata dalle istituzioni italiane spesso riluttanti rispetto all’apertura dei dati. Sia perché non comprendono la necessità della condivisione come elemento di base nella costruzione di un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Sia perchè, elemento forse ancora più grave sotto molti aspetti, non hanno ancora messo a punto filiere adeguate per la raccolta, l’armonizzazione, la condivisione dei dati in formato aperto, ben documentato, accessibile e riutilizzabile. 

Nei mesi della pandemia c’è stata da molte parti la richiesta di aprire i dati sanitari, di renderli accessibili per poter effettivamente capire la portata di quello che sta succedendo e la ratio dietro le diverse decisioni della politica. Una richiesta che è arrivata da diversi esponenti del mondo scientifico, di quello delle associazioni civili per i diritti e la trasparenza, da parte di diversi media e siti informativi. Una richiesta tradotta in una petizione pubblica, #DatiBeneComune, che ha già raccolto quasi 40mila firme e l’adesione di centinaia di organizzazioni, e che si rivolge al premier e al Governo Italiano per chiedere di rendere disponibili i dati della pandemia. “I cittadini hanno il diritto di conoscere su quali dati e quali analisi si basano le decisioni prese” recita il testo della petizione. Facendo appello proprio alla necessità di lavorare sulla costruzione di un rapporto di fiducia tra cittadinanza, comunità scientifica e istituzioni. 

Un progetto epidemiologico aperto, come quello che abbiamo raccontato, va proprio nella direzione giusta, quella di considerare i cittadini non solo numeri e fonte di dati ma veri protagonisti della ricerca e delle scelte che sulla base di quei dati possono poi essere operate. 

 

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