Adisalem Abu, giornalista della televisione di stato eritrea, e le sue due figlie gemelle, riuniti dopo 18 anni
Una pace attesa da 20 anni, quella "scoppiata" tra Etiopia ed Eritrea, come testimoniato dall’abbraccio pubblico tra i leader dei due paesi, nemici giurati fin dagli anni Novanta del secolo scorso. Se lo storico incontro ad Asmara, capitale dell’Eritrea, tra il primo ministro Etiope Abiy Ahmed e il dittatore eritreo Isaias Afwerki diventerà il simbolo della soluzione del conflitto che da 20 anni affligge il Corno d’Africa, lo si deve all’intenso lavoro di relazioni internazionali messo in atto dal governo etiope. Fresco di nomina, infatti, Abiy Ahmed Ali ha mandato, fin dal suo discorso d’insediamento, dei chiari messaggi di apertura verso il governo eritreo.
Mentre i rapporti tra i due stati si fanno sempre più pacifici proseguono le operazioni di apertura reciproca. Per il momento sono state riaperte le ambasciate, e il primo volo aereo che collega le capitali è già atterrato, poi toccherà al commercio e alla linea telefonica. Intanto le famiglie divise dalla chiusura delle frontiere hanno potuto riabbracciare amici e parenti, tra sorrisi, lacrime e fiori. Dopotutto il primo ministro etiope era stato sufficientemente chiaro quando ha dichiarato che non c’è più alcun confine tra Etiopia ed Eritrea, “perché un ponte d’amore l’ha distrutto”.
Mappa geografica del Corno d'Africa
Per afferrare l’importanza dell’accordo di pace, occorre analizzare le cause della guerra tra i due paesi, e tutto il processo che ne è seguito. Il primo fatto da considerare secondo Antonio Varsori, docente di storia delle relazioni internazionali dell’università di Padova, è che l’Etiopia e l’Eritrea rappresentano due eredità del colonialismo italiano. L’Eritrea è stata la prima colonia dell’Italia, alla fine dell’Ottocento, e quella in cui la presenza italiana si è ben radicata. Un momento fondamentale è stato la conquista italiana dell’Etiopia, nel 1936, sebbene si sia trattato di una dominazione molto breve, perché nel 1941 il Negus Hailé Selassié fu rimesso sul trono, dopo che gli inglesi aiutarono gli etiopi a sconfiggere l’esercito di Mussolini.
Quello che è accaduto dopo il 1941 è importante per comprendere le dinamiche che hanno portato a uno profondo disequilibrio nella zona. L’Italia, uscita perdente dalla seconda guerra mondiale, dovette rinunciare alle colonie. Dopo una prima occupazione militare inglese, le Nazioni Unite nel 1949 scelsero soluzioni diverse per ogni paese. La Libia sarebbe stata indipendente in poco tempo, la Somalia posta sotto un’amministrazione fiduciaria per dieci anni, mentre l’Eritrea sarebbe passata sotto la sovranità etiope, pur mantenendo una forte autonomia. “La soluzione scelta per l’Eritrea è stata singolare: le sono stati riconosciuti dei caratteri etnici, religiosi e culturali diversi dall’Etiopia, ma è stata comunque annessa ad essa perché, dopotutto, si trattava di un paese uscito vincitore dal conflitto mondiale. L’Etiopia doveva essere premiata. E il premio fu lo sbocco sul Mar Rosso, ovvero l’Eritrea”.
La situazione ha iniziato a precipitare quando, agli inizi degli anni Sessanta, il governo etiope sceglie una soluzione centralistica, eliminando l’autonomia dell’Eritrea. La reazione della popolazione è stata molto forte, dando vita a un’opposizione che poi si è fortificata ulteriormente. Intanto, negli anni Settanta in Etiopia c’è stato un colpo di stato e la monarchia ha lasciato il passo a un governo marxista legato all’Unione Sovietica e capeggiato dal colonnello Menghistu. “A questo punto”, continua Varsori “l’opposizione in Eritrea diventa armata e inizia un periodo di guerriglia, ma il governo centrale controllava solo le città principali e alcune linee di comunicazione. Il resto del territorio era in mano al Movimento indipendentista eritreo. La guerra civile durò 20 anni, fu durissima e contraddistinta da una brutalità enorme.”
Alla fine degli anni Ottanta Gorbaciov tagliò tutti gli aiuti ai regimi legati all’URSS, e questo ipotecò la fine del regime di Menghistu in Etiopia. Il paese quindi, fu teatro di una alleanza tra alcuni movimenti di guerriglia interni e contrari al regime, con il movimento di liberazione eritreo. Alla caduta del regime etiope fece seguito un referendum con cui si decise l’indipendenza dell’Eritrea, ma il conflitto è continuato per altri tre anni per il controllo di alcune piccole città di confine. “Le conseguenze sociali ed economiche che gravavano su entrambi gli stati si possono ben immaginare: carestie, povertà e distruzione delle infrastrutture. Dopo tre anni c’è stata una tregua di soluzione pacifica ma non è stata mai firmata una pace definitiva tra i due paesi.”
“ la guerra tra Etiopia ed Eritrea è già finita da tempo, ma la pace non era mai stata formalizzata Antonio Varsori
In questi anni in Eritrea il Movimento di liberazione era ed è tuttora al potere: si tratta di uno dei governi più autoritari del continente africano, e il partito unico consente al leader di governare incontrastato. Inoltre il paese è molto povero, e in ambito internazionale è visto in modo molto negativo perché sospettata di aver appoggiato alcuni gruppi islamisti attivi in Somalia.
In sostanza, continua Antonio Varsori, “la guerra tra Etiopia ed Eritrea è già finita da tempo, ma la pace non era mai stata formalizzata. L’aver raggiunto una conclusione formale dà piuttosto l’idea che sia finita una fase di politica interna e che quindi ci possa essere uno sviluppo che non sia limitato ai rapporti bilaterali tra i due stati africani, ma che ci sia un’apertura verso l’esterno sul piano economico, e una liberalizzazione sul piano politico interno.” Il primo effetto della liberalizzazione, se dovesse avvenire e avere degli esiti positivi, potrebbe portare anche a una parziale soluzione del problema dei profughi di tipo politico in fuga dalla dittatura eritrea.
La comunità internazionale, gli studiosi di scienze politiche e di relazioni internazionali vedono di buon occhio le dinamiche che si stanno svolgendo nel Corno d’Africa. C’è già chi li candida i due paesi al premio Nobel per la pace di quest’anno, chi invece preferisce usare ancora il condizionale e vedere come evolve la situazione.