CULTURA

Il "flashover" de La Fenice 25 anni dopo

Il Gran Teatro La Fenice è bruciato la notte del 29 gennaio di quasi 25 anni fa. Era il 1996 e quella sera non faceva particolarmente freddo. I canali attorno a campo San Fantin erano in secca perché li stavano dragando per una ragione ordinaria, così le barche dei pompieri non riuscirono ad avvicinarsi a sufficienza, quando fu il momento di intervenire.

Il flashover, quella fase dell’incendio che brucia tutto, non durò molto e tra le otto e tre quarti e le nove e mezza della sera il destino del teatro si compì per la seconda volta (un primo incendio lo aveva distrutto parzialmente nel dicembre del 1836, ma, come si dice, “la fenice risorge dalle sue ceneri”). Da lì fu storia: politica, amministrazione, il processo certo, ma soprattutto decidere il futuro.

Non è di questo che racconta Giorgio Falco nel suo nuovo libro, Flashover. Incendio a Venezia, uscito per Einaudi, con le fotografie di Sabrina Ragucci. Falco scava nel materiale umano che fisicamente ha messo in opera la tragedia e lo osserva da una distanza contemporaneamente millimetrica e siderale.

Apre (e chiude) come un romanzo, volutamente ed esplicitamente. Mostra cioè come sarebbe stato compiere quel salto che porta una persona (nella fattispecie Enrico Carella, il responsabile dell’incendio doloso) a diventare, nelle mani del narratore, un personaggio.

Ma quel divario tra le sponde Falco non lo attraversa, e si tiene in perfetto equilibrio nel ricostruire il percorso – a volte, spesso – paradossale delle azioni umane.

Si può finire terminare la giornata di lavoro con l’appiccare il fuoco a un teatro così come si andrebbe a prendere un aperitivo al bar?

Carella è chiamato il cugino padrone perché titolare della piccola ditta che lavorava in subappalto dentro il teatro; l’altro attore della vicenda è il cugino dipendente che nella dinamica dei fatti “ha fatto il palo”. Attorno tutti gli altri (le fidanzate, il ristoratore e i camerieri del locale a ridosso del teatro, chi sovrintendeva ai lavori, le madri i padri, gli operai ecc.): i protagonisti e i comprimari sono maschere reali e le loro azioni sono scevre dalla finzione narrativa ma anche dalla ricostruzione fattuale del reportage.

Falco si avventura in un terreno che non ha definizioni: il suo raccontare è ricco di parentesi (riflessioni sue, o di altri, o precisazioni processuali) che proprio perché tra parentesi acquisiscono importanza anziché risultare superflue come la teoria sintattica vuole.

“(Compiamo gli stessi gesti modulati attorno a piccolissime variazioni […]); (C’è qualcosa di più angosciante del vedere le proprie paure non davanti a sé, ma riflesse in una grande specchiera ottocentesca?); (Quattro anno dopo, durante il processo, Bonannini dirà di non aver fotografato subito, perché all’inizio c’era soltanto fumo […])”: queste sono solo alcune delle molte pause, o viceversa accelerazioni, di cui l’autore punteggia il testo. Da controcanto fanno le fotografie di Ragucci: un discorso nel discorso che ancor di più evidenzia l’universalità e particolarità del fatto – eccezionale – di cui si racconta. Sono foto di una (due?) persone che indossano una maschera bianca, la più neutra immaginabile, e a volte anche una parrucca, in pose diverse.

Non è cosa semplice, avere a che fare con dei fatti di cronaca e volerli riportare sulla pagina fuori da uno schema. Di certo c’è stato lo studio delle carte e l’immedesimazione – da narratore – nel gesto, ma in più Giorgio Falco ci ha anche annodato una serie di pensieri altri, che riflettono il mondo di oggi e più in generale la discrasia tra agito e pensato.

Per esempio: cosa significano tre minuti? Il tempo in cui tutto s’è irrimediabilmente definito? McDrive anni fa fece una campagna pubblicitaria per la quale se il cliente non fosse stato servito entro questa – breve, o forse no – misura di tempo, avrebbe dovuto aver diritto a un omaggio, racconta l'autore.

Il tema del tempo, del senso, della colpa e del danaro innervano tutto il racconto. In una delle prime parentesi del libro si legge: “(L’effetto dell’innesco, una piccola, iniziale combustione, nello spazio vuoto del cantiere, del teatro settecentesco. Da adesso in poi potremo andare avanti e indietro nel testo? Potremo prendere un’altra strada, e salvarci?).

Potremo? Possiamo?

Qui sotto l'intervista all'autore.

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