SOCIETÀ

La foresta amazzonica di Lula respira, ma non è ancora fuori pericolo

Com’è il bicchiere dell’Amazzonia brasiliana? Mezzo vuoto o mezzo pieno? L’analisi degli ultimi dati disponibili suggerirebbe prudenza, mentre il governo brasiliano festeggia, con una certa enfasi, una notizia che certamente si può catalogare come positiva: la deforestazione dell’Amazzonia, nei primi 6 mesi del governo guidato da Luiz Inàcio Lula da Silva, è diminuita del 33,6% rispetto allo stesso periodo del 2022, quando al Palácio do Planalto, sede ufficiale della Presidenza della Repubblica del Brasile, sedeva l’ultra conservatore Jair Bolsonaro. Secondo le immagini satellitari analizzate dall'Istituto nazionale brasiliano per la ricerca spaziale (Inpe) la foresta pluviale brasiliana si è ridotta di “appena” 2.649 chilometri quadrati tra gennaio e giugno 2023, rispetto ai 3988 kmq nello stesso periodo del 2022. Prendendo a riferimento il solo dato del mese di giugno, la deforestazione è diminuita del 41%. «Stiamo raggiungendo un costante trend al ribasso nella deforestazione dell’Amazzonia», ha dichiarato soddisfatta la ministra dell'Ambiente, Marina Silva, aggiungendo che «il risultato è una prima, diretta conseguenza dell’impegno del presidente di combattere il cambiamento climatico e la deforestazione della più grande foresta pluviale del mondo». E Lula l’aveva promesso esplicitamente alla sua elezione: stop definitivo alla deforestazione e al disboscamento dell’Amazzonia brasiliana entro il 2030. Il risultato è dunque incoraggiante, soprattutto se confrontato con il dato, spaventoso, collezionato dall’ex presidente, che nel quadriennio del suo mandato (2019-2022) ha fatto di tutto per indebolire la legislazione e la governance ambientale del Paese, spingendo la deforestazione a un +75% rispetto alla media del decennio precedente, a tutto vantaggio degli interessi delle multinazionali. Per quattro anni Bolsonaro ha tollerato, se non incoraggiato, l’invasione violenta delle terre indigene, la distruzione, gli incendi, lo scavo illegale di miniere, calpestando diritti umani e territoriali, scatenando una campagna di odio contro gli attivisti per la difesa della terra e delle comunità indios. All’inizio del 2022 Greenpeace l’aveva attaccato frontalmente («Bolsonaro è una catastrofe per l’ambiente») pubblicando un dossier dal titolo “Dangerous man, dangerous deal”.

La drammatica incognita del “marco temporal”

Dunque, la pagina è voltata: il Brasile si è rimesso sulla carreggiata giusta. E finalmente è tornato a occuparsi della tutela della più grande foresta pluviale del mondo, polmone fondamentale per l’equilibrio ambientale dell’intero pianeta. Come ha commentato Marcio Astini, leader del gruppo ambientalista Climate Observatory: «Il governo è tornato ad agire, applicando la legge e proteggendo il tesoro unico che è l’Amazzonia». Eppure restano ancora interrogativi e molte perplessità sulle reali possibilità che la politica brasiliana raggiunga i risultati promessi. Sostanzialmente per due motivi, al netto dell’enorme peso che la lobby dell’agrobusiness (anche grazie al sostegno dei parlamentari di estrema destra) continua ad avere nel Paese. Primo: quel numero, 2.648 chilometri quadrati di foresta pluviale definitivamente perduti (superiore all’intera superficie del Lussemburgo per avere un metro di paragone) resta comunque un prezzo altissimo che si continua a pagare: bene l’inversione di tendenza, ma guai accontentarsi. Il secondo punto è ancor più preoccupante. E riguarda una legge già approvata a fine maggio dalla Camera dei deputati, controllata dai conservatori (il presidente, Arthur Lira, è un fedelissimo di Bolsonaro), ora all’esame della Corte Suprema brasiliana, e che solo successivamente passerà all’esame del Senato. La legge regola il principio del “marco temporal”, una norma assai gradita dagli “sfruttatori” dell’Amazzonia e assai meno dalle popolazioni indigene, che infatti hanno già inscenato proteste a Brasilia, le ultime dopo il pronunciamento dei parlamentari (che hanno approvato il testo con 283 voti a favore, 156 contrari).

Il marco temporal (limite temporale) è, in sostanza, una clausola che introduce il seguente principio: soltanto le terre abitate dai popoli indigeni al 5 ottobre 1988, data della promulgazione della Costituzione federale brasiliana, possano essere a loro affidate (le terre comunque appartengono allo stato e non possono essere rivendute o affittate, ma soltanto “gestite”). Un principio che non tiene però conto degli espropri sistematici perpetrati dai colonizzatori prima e poi dalla dittatura militare, che dal 1964 al 1985 ha guidato il Brasile. Molti di quei popoli indigeni erano stati cacciati con la forza dai territori che abitavano, e conservavano, da generazioni. I sostenitori del marco temporal, vale a dire coloro che hanno beneficiato della cacciata delle tribù prima del 1988, impiantando su quelle terre attività agricole o minerarie, ritengono che “gli attuali proprietari non possono essere costretti ad andarsene solo sulla base di vaghe indicazioni dell’esistenza di popolazioni indigene nel luogo in tempi lontani”. Perché questo “metterebbe a rischio di espropriazione gran parte della terra produttiva del paese”. Perciò invocano la norma come “necessaria in nome della certezza del diritto”. Sapendo bene che documenti scritti, che attestino il legame ancestrale di una data tribù a quel dato appezzamento di terra, naturalmente non esistono. Insomma, una questione squisitamente legale, che nasce proprio da una sentenza della Corte Suprema, che nel 2009 si pronunciò a favore della demarcazione, con quel criterio temporale, del territorio di due Terre Indigene, la Raposa Terra do Sol, nello stato di Roraima, e la Ibirama, nello stato di Santa Caterina. Qui il governo locale aveva promosso un ricorso per “occupazione illegale” del territorio oggi abitato dai popoli Xokleng, Kaingang e Guarani. Da allora in poi le cause legali si sono moltiplicate, e riguardano potenzialmente circa un quarto dell’intero territorio della foresta amazzonica brasiliana (parliamo di una superficie di oltre 6 milioni di chilometri quadrati). Mentre, di contro, le tribù indigene continuano ad alzare la voce per vedere rispettati i loro diritti: «Far ricadere su di noi l’onere di dimostrare di aver occupato le nostre terre il 5 ottobre 1988 significa ignorare un passato molto recente in cui non avevamo nemmeno il diritto di definire i nostri destini», ha dichiarato l’avvocato Samara Pataxó, coordinatore legale dell’Articolazione dei popoli indigeni del Brasile, un’organizzazione che due anni fa aveva denunciato l’ex presidente brasiliano Bolsonaro alla Corte Penale Internazionale (la sede è all’Aia, nei Paesi Bassi) per aver commesso, nei confronti delle popolazioni indigene, i crimini di sterminio, persecuzione e genocidio. «La Costituzione brasiliana – ha sostenuto ancora l’avvocato Pataxò - non fa menzione a riferimenti temporali: la tesi ignora centinaia di anni di saccheggi e persecuzioni dei popoli indigeni». In effetti l’articolo 231 della Costituzione brasiliana recita testualmente, al paragrafo 2: “Le terre tradizionalmente occupate dagli indiani sono destinate al loro possesso permanente ed è loro il diritto all’usufrutto esclusivo delle ricchezze del suolo, dei fiumi e dei laghi in essi”.

La rabbia degli indigeni, l’allarme degli scienziati

Peraltro, il principio del marco temporal è contenuto in un più ampio testo di legge (denominato PL-490) che qualora fosse ritenuto idoneo dalla Corte Suprema, consentirebbe agli Stati brasiliani (sono 26) di sottrarre intere aree all’usufrutto esclusivo dei popoli indios qualora vi siano, ad esempio, “interessi minerari” oppure un "rilevante interesse pubblico”. Quindi libertà di fare man bassa dove c’è ricchezza, o terra da sfruttare. Sono due anni che la Corte Suprema sta valutando il caso, e questo la dice lunga sull’importanza della decisione (er sul “peso” della lobby dell’agrobusiness). La sentenza è prevista il prossimo ottobre, ma già gli scienziati stanno valutando gli effetti disastrosi sulla conservazione delle foreste del Brasile che potrebbe avere un’eventuale approvazione del testo di legge, con addirittura il 95% della foresta a rischio). Secondo il biologo della conservazione Celso Silva-Junior, dell’Università Federale del Maranhão, interpellato dalla rivista scientifica Science, l’approvazione del marco temporal «potrebbe lasciare fino a 1 milione di chilometri quadrati di foresta pluviale non protetti. E non solo: se le foreste su queste terre venissero abbattute, le emissioni di carbonio salirebbero alle stelle, rendendo praticamente impossibile per il Brasile rispettare i suoi impegni climatici o raggiungere i suoi obiettivi di sviluppo sostenibile». Mentre la scienziata ambientale Ana Claudia Rorato, dell’Istituto nazionale brasiliano per la ricerca spaziale, ha evidenziato che «…i gruppi indigeni spesso fanno un lavoro migliore nel prevenire la deforestazione rispetto ad altre agenzie governative di gestione e protezione del territorio».

Comunque vada, si tratterà di uno snodo fondamentale per il Brasile e per la presidenza di Luiz Inàcio Lula da Silva. Nessun dubbio che la sua azione abbia segnato un netto cambio di passo rispetto alla presidenza Bolsonaro,quest’ultimo peraltro appena condannato dal Tribunale Elettorale Superiore per abuso di potere politico e uso improprio dei media e dichiarato ineleggibile per otto anni, fino al 2030 (il che gli impedirà di partecipare alle prossime elezioni presidenziali, previste per il 2026). Il problema semmai è capire se davvero Lula riuscirà a invertire la marcia, e fino a che punto, nei tempi promessi. Anche l’Unione Europea ha appena pubblicato un’analisi piena di perplessità, soprattutto per quanto riguarda il conciliare la difesa dell’ambiente con la sfida, altrettanto ambiziosa, della riduzione della povertà. Considerando inoltre che il Congresso brasiliano, negli anni di Bolsonaro, ha molto ridimensionato i poteri d’intervento dei due ministeri coinvolti, quello dell’Ambiente (e del cambiamento climatico) e quello delle Popolazioni indigene. Un passaggio che sarà certamente un freno per l’azione di governo, che deve invece trovare il sistema per far ripartire rapidamente un’economia in sofferenza (l’Ocse prevede per il Brasile un Pil in aumento dell’1,7% quest’anno e dell’1,2% nel 2024). Si legge nel documento dell’UE: «Le contraddizioni nelle politiche di Lula potrebbero derivare dalla difficoltà di conciliare la protezione dell’Amazzonia e dei diritti dei popoli indigeni con il rilancio dell’economia e la riduzione della povertà». Suggerendo che, per rispondere a questa seconda necessità, potrebbe magari sorgere la tentazione di ricorrere proprio all’Amazzonia, un patrimonio dalle possibilità illimitate anche sotto il profilo dello sviluppo economico. Il che però comporterebbe grandi progetti infrastrutturali, con il rischio di favorire una deforestazione “contenuta”. Tutto sta a capire quando, e se, Lula riuscirà a trovare una soluzione al dilemma. Sperando che il prezzo da pagare, per il pianeta, non sia troppo alto.

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