SCIENZA E RICERCA

Le foreste pluviali e il legame con l'asteroide che estinse i dinosauri

Quando si parla dell’enorme asteoide che circa 66 milioni di anni fa andò a schiantarsi nella penisola dello Yucatán, nell’attuale Messico, il primo pensiero va subito ai dinosauri, estinti a seguito dell’evento che sconvolse il pianeta. Ma a sparire dalla Terra non fu solo il simbolo l’era Mesozoica: circa i tre quarti delle specie animali e vegetali finirono per essere cancellati, in parte come conseguenza diretta dell'impatto del bolide, ma ancor di più a causa delle successive profonde modificazioni climatiche ed ecologiche

Al tempo stesso, però, uno sconvolgimento di tale portata pose le condizioni per la nascita e l’affermazione di altre forme di vita. E' noto che il percorso di ascesa dei mammiferi, nel Cretaceo rappresentati solo da piccoli animali simili agli attuali roditori, iniziò proprio dopo l'estinzione dei dinosauri.

Ma anche il mondo vegetale cambiò volto: è il caso, ad esempio, delle foreste pluviali tropicali dominate dalle angiosperme che andarono a sostituirsi a una vegetazione precedentemente caratterizzata soprattutto da arbusti, felci e conifere. A prosperare, dopo un periodo di ricostruzione che richiese circa sei milioni di anni, iniziarono così ad essere piante più fitte e rigogliose, in cui i raggi di sole facevano maggiormente fatica a penetrare. Oscure, umide, lussureggianti e ricche di biodiversità.

Ad approfondire i meccanismi che ridefinirono le foreste tropicali del Sudamerica è stato uno studio recentemente pubblicato su Science e frutto di un'ampia collaborazione internazionale. I ricercatori hanno basato il loro lavoro sull'analisi di decine di migliaia di fossili di polline, spore e foglie, datati tra 70 e 56 milioni di anni fa, comprendendo quindi sia campioni precedenti all'impatto dell’asteroide sia successivi all’evento. In questo modo gli studiosi hanno potuto valutare la diversità complessiva delle piante forestali, le specie dominanti e le interazioni tra piante e insetti arrivando così a comprendere le trasformazioni avvenute dopo l'evento di estinzione. 

Le analisi dei ricercatori si sono concentrate circa 1.500 chilometri a sud del cratere Chicxulub, formatosi dopo che l'asteroide, di una decina di chilometri di diametro, andò ad impattarsi sulla superficie terrestre. Il cratere finì poi per sprofondare per circa venti chilometri tra la penisola dello Yucatán in Messico e l’oceano Atlantico, fattore che per molti anni ha reso particolarmente complessa la sua individuazione. 

L'evento ha lasciato una firma geologica del passaggio tra Cretaceo e Paleocene nelle rocce marine e terrestri di tutto il mondo e gli studiosi si sono concentrati su 39 località della Colombia dove era possibile osservare i sedimenti che rappresentano il confine K / Pg. Hanno analizzato oltre 50 mila fossili di pollini e più di 6 mila foglie fossili e grazie a questi campioni sono riusciti a determinare la composizione e la struttura della foresta, prima e dopo lo schianto dell'asteroide. 

Secondo i ricercatori ci sono diverse modalità con cui l'evento di estinzione può aver favorito il progressivo sviluppo delle foreste pluviali tropicali: la cenere provocata dall'impatto dell'asteroide potrebbe aver fatto da concime per il suolo favorendo la crescita delle angiosperme, più rapida rispetto ad altre piante. La scomparsa dei dinosauri erbivori potrebbe inoltre aver svolto un ruolo diretto dal momento che questi animali, calpestando e mangiando la vegetazione bassa, in precedenza avevano contribuito a mantenere gli spazi aperti e a far penetrare la luce.

"Una catastrofe globale che coinvolge un'estinzione di massa produce un mondo diverso, che si riprende in modo spazialmente e temporalmente eterogeneo", sottolineano su Science le paleobotaniche Bonnie F. Jacobs ed Ellen D. Currano in un articolo uscito nello stesso numero che contiene lo studio. Le conseguenze dell'impatto dell'asteroide sono state diverse a seconda della vicinanza al cratere e delle condizioni locali. Ad esempio, spiegano le studiose, la Patagonia, a circa 8000 km dal cratere dell'impatto, ha subito conseguenze meno gravi rispetto ai siti più vicini a nord. E i campioni palinologici recentemente riportati dalla Nuova Zelanda, a circa 12.000 km dall'impatto, mostrano cambiamenti molto più moderati nel confine di passaggio K /Pg e una ritardata affermazione delle angiosperme che arrivarono ad essere dominanti solo durante l'Eocene (da 56 a 43 milioni di anni fa). 

Abbiamo approfondito i contenuti di questo studio e l'approccio che lo caratterizza insieme al professor Luca Capraro del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova. "Si conosce abbastanza bene quello che è successo nel contesto oceanico, molto meno quanto accaduto sulla terraferma. E’ uno studio pionieristico - commenta il docente - perché applica una nuova metodologia per cercare di capire quello che è successo nel momento del passaggio tra Cretaceo ed era Terziaria quando l'impatto del bolide nello Yucatán ha provocato la grande estinzione".

Il professor Luca Capraro dell'università di Padova approfondisce lo studio secondo cui le moderne foreste pluviali sono nate a seguito dell'impatto dell'asteroide che ha portato all'estinzione dei dinosauri. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Questo lavoro - spiega il professor Luca Capraro - si basa sullo studio di reperti vegetali, sia di macrofossili come le foglie, sia di microfossili, come i pollini. Ambedue sono testimonianze della vegetazione e della flora che si trovavano, prima e dopo l’evento, nella zona che oggi si colloca nella parte settentrionale del Sudamerica, in Colombia e Guatemala. Questi due approcci su cui si basa lo studio sono differenti ma è possibile ottenere da entrambi delle informazioni significative: i pollini ci permettono di conoscere quale era la composizione della flora, mentre le foglie ci dicono quali erano le dinamiche che occorrevano alle piante".

Per analizzare i campioni gli studiosi si sono avvalsi di diversi metodi, comprese le misure di densità della vena fogliare e la determinazione dell'intervallo dei valori degli isotopi del carbonio fogliare, utili per valutare le variazioni di luce. Attraverso l'analisi delle tracce di predazione lasciate dagli insetti sulle foglie è stato inoltre possibile comprendere anche l'impatto che l'evento di estinzione ha avuto su di essi. Più forte tra quegli insetti che dipendevano da specifici tipi di piante, più lieve tra i gruppi generalisti che si nutrivano in modo eterogeneo e che potevano meglio adattarsi a un ecosistema in decisa trasformazione.

"Dopo l’evento si verificò, come ci si poteva aspettare, un enorme cambiamento che però non ha portato alla distruzione di tutto quello che c’era precedentemente. Per quanto riguarda le foreste - approfondisce il docente del dipartimento di Geologia dell'università di Padova - sono andate incontro più a una sorta di ristrutturazione. Le foreste tropicali c’erano già prima perché l’ambiente del Cretaceo era molto caldo e molto umido, però si trattava di foreste piuttosto rade, costituite prevalentemente da conifere e da felci arboree. Le angiosperme, quindi le piante da fiore, erano abbondanti ma non predominanti. All’impatto del bolide fa seguito un momento di crisi che coinvolge tutte le specie. Immediatamente dopo l’evento si apre una fase di transizione di circa cinque o sei milioni di anni in cui la flora risulta molto impoverita, fino a quando si gettano le basi per l’attuale foresta tropicale e le angiosperme esplodono e diventano dominanti".

Ma attraverso quali meccanismi la caduta dell'asteroide può aver provocato queste trasformazioni? "Gli autori dello studio - spiega Luca Capraro - provano a identificare le possibili ragioni di questi cambiamenti e ovviamente l’impatto del bolide ha avuto un ruolo preponderante. La prima spiegazione è legata alla modifica della composizione della fauna: in sostanza l’estinzione dei dinosauri ha favorito la possibilità che queste foreste diventassero più fitte e rigogliose perché non c’erano più questi enormi animali che rovinavano la vegetazione, la brucavano e quindi la tenevano sotto controllo sia in termini di compattezza che di sviluppo verticale. Un’altra ipotesi è che ci sia stato un cambiamento nella chimica dei suoli: un clima tropicale molto umido tende a impoverire i suoli e probabilmente nel Cretaceo, dopo milioni di anni di questo ambiente, i terreni avevano ormai pochi nutrienti e questo aveva favorito lo sviluppo di conifere, che in ambienti tropicali sono tipicamente adattate a questi suoli poco fertili. L’arrivo del bolide avrebbe provocato una pioggia di azoto che ha arricchito i suoli e ha reso le angiosperme più competitive rispetto alle conifere".

Come era logico aspettarsi "l’effetto è stato globale ma l’intensità è stata molto più elevata vicino al punto di impatto. Gli effetti sono stati devastanti negli immediati dintorni del cratere, mentre in regioni lontane gli stravolgimenti sono stati sensibilmente inferiori". 

"Questo studio - conclude il professor Capraro - non esaurisce tutti gli interrogativi ma mette un altro tassello importante alla comprenzione dell’evento di estinzione che ha messo fine al Cretaceo". E ampliando lo sguardo "porta a riflettere su un aspetto più generale che riguarda l’estinzione: sono quei momenti di crisi in cui, cambiando le condizioni ambientali, possono ribaltarsi anche i rapporti di forza tra i competitori. I mammiferi esistevano già durante il regno dei dinosauri ma in quel momento non avevano occasione di espansione perché le nicchie ecologiche erano occupate da questi grandi rettili".

Nelle foreste pluviali tropicali dopo l'impatto dell'asteroide ad avere la meglio furono le angiosperme, i cui primi reperti fossili risalgono a circa 135 milioni di anni fa. Come spiega Sofia Belardinelli in questo articolo su Il Bo Live la comparsa e rapida diversificazione e diffusione delle piante da fiore "ha modificato profondamente i paesaggi e gli ecosistemi dell’intero pianeta in un periodo di tempo molto breve da un punto di vista geologico". Sono diventate dominanti durante il Paleocene e il loro successo è stato un fattore di traino fondamentale per la biodiversità globale.

Oggi però, come ha dichiarato Carlos Jaramillo, geologo dello Smithsonian Tropical Research Institute a Panama e tra gli autori dello studio pubblicato su Science, assistiamo all'estesa distruzione di aree di foresta che sono il risultato di 66 milioni di anni di evoluzione. "Adesso sappiamo che le foreste ricche di biodiversità impiegano moltissimo tempo per rinascere. Non possiamo distruggerle pensando che sia sufficiente ripiantare gli alberi", ha sottolineato lo studioso.

Senza un cambio di rotta si rischia di perdere in modo irreversibile un patrimonio fondamentale del nostro pianeta, in termini di biodiversità, servizi ecosistemi e lotta ai cambiamenti climatici: nel 2020 secondo il rapporto annuale di Global forest watch, sono andati distrutti 4,2 milioni di ettari di foreste tropicali, con una crescita del 12% rispetto all'anno precedente. I danni maggiori si sono concentrati in Amazzonia dove la deforestazione, seppur ridotta rispetto ai picchi degli anni '90, prosegue a ritmi allarmanti.

 

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