SCIENZA E RICERCA

Combattere la deforestazione: un approccio locale per un problema globale

Le foreste primarie sono ecosistemi unici, la cui biodiversità è il frutto dell’avvicendamento, nel tempo, di differenti comunità biologiche in relazione ai cambiamenti dell’ambiente fisico: questo processo, noto come successione ecologica, si realizza in tempi molto lunghi – secoli o addirittura millenni –, e porta alla formazione di ecosistemi incredibilmente ricchi in termini di biodiversità, come è testimoniato, ad esempio, dalle foreste tropicali. Un altro fattore necessario per distinguere una foresta “primaria” da una foresta “secondaria” è l’assenza di ogni elemento di disturbo antropico nella sua storia evolutiva, e la conservazione di una elevata integrità ecologica.

Le foreste primarie, da alcuni decenni a questa parte, si stanno riducendo a vista d’occhio in ogni parte del mondo: nei sette paesi che ne detengono il 75% (Russia, Canada, Brasile, Congo, Stati Uniti, Perù, Indonesia) la deforestazione è stata – e, in alcuni casi, è ancora oggi – un’attività largamente praticata, legalmente o meno, a scopi commerciali. La perdita di foreste primarie è, però, irreversibile: la loro rigenerazione potrebbe avvenire nell’arco di secoli, oppure, laddove il danno è troppo ampio, potrebbe non verificarsi affatto. In tal modo, insieme alla biodiversità contenuta in questi ambienti andrebbero perduti tutti quei servizi ecosistemici senza i quali le società umane non potrebbero sopravvivere.

Un’accorata Lettera indirizzata alla rivista Nature Ecology&Evolution da alcuni scienziati brasiliani pone l’accento su quanto sta accadendo in Brasile. Il paese, che, dopo la deforestazione selvaggia degli anni ’80 e ’90 dello scorso secolo, aveva intrapreso un percorso virtuoso di protezione delle foreste, ha vissuto, negli ultimi dieci anni, una drammatica inversione di tendenza. I dati riportati nella Lettera sono sconcertanti: dopo il minimo di deforestazione raggiunto nel 2012 (-84% rispetto al massimo storico del 2004), dal 2013 i tassi di deforestazione hanno ripreso ad aumentare, in conseguenza di un indebolimento delle politiche di protezione ambientale implementate negli anni precedenti.

Nuovi picchi sono stati raggiunti negli ultimi tre anni: a fronte di una tendenza in crescita da tempo, i tassi del 2020 sono superiori ai tassi del 2019 del 9,5% (a loro volta incrementati del 34% rispetto all’anno precedente), e ben del 47% rispetto a quelli del 2018. A fronte dell’obiettivo, stabilito nel 2009 con il Piano d’Azione per la Prevenzione e il Controllo della Deforestazione in Amazzonia (PPCDAm), di ridurre dell’80% la deforestazione entro il 2020, i tassi di deforestazione sul territorio brasiliano relativi allo scorso anno – sottolineano ancora i firmatari della Lettera – superano del 182% quelli attesi; la deforestazione, dunque, è stata ridotta solo del 44%, non dell’80% stabilito dalla legge, rispetto ai massimi storici dei decenni passati.

«Rispetto ai folli ritmi di deforestazione dell’Amazzonia raggiunti negli anni ’90, il fenomeno è oggi ridotto a un terzo, ma non è ancora abbastanza. Nel 2019 si è parlato molto, ad esempio, degli incendi che hanno colpito la foresta amazzonica: quel fenomeno, tuttavia, non è che l’ultimo anello di un ben più esteso processo di degradazione degli ecosistemi forestali. Nel 2020, nel generale silenzio mediatico causato dalla dirompenza dell’emergenza pandemica, la distruzione di questi ambienti è proseguita. È innegabile che, per quanto riguarda il Brasile, l’incremento dell’incidenza del fenomeno sia da attribuire, con tutta probabilità, all’indirizzo politico intrapreso dal Paese. Il mondo della scienza si è schierato con decisione nella direzione opposta, ponendo l’accento sui rischi a cui scelte simili sottopongono non solo il Brasile, ma il mondo intero. Tuttavia, il presidente Bolsonaro ha asserito in più occasioni la propria convinzione che la foresta amazzonica non sia un bene “di tutti”, ma una risorsa che il Brasile ha tutto il diritto di sfruttare dal punto di vista economico», afferma Giorgio Vacchiano, docente di Selvicoltura all’università Statale di Milano e noto divulgatore scientifico, indicato nel 2018 da Nature come uno degli undici scienziati emergenti sulla scena mondiale.

L’intervista completa a Giorgio Vacchiano. Montaggio di Barbara Paknazar, fotografie di Giorgio Vacchiano

«L’amministrazione brasiliana, in ogni caso, non può essere ritenuta la sola responsabile: prima di tutto, infatti, bisogna ricordare che la foresta amazzonica si estende su diversi territori nazionali dell’America Latina, tra cui il Perù, la Bolivia, la Colombia, il Venezuela», prosegue Vacchiano. A finanziare la “conversione” delle aree forestali vergini in terreni produttivi – non solo in Sud America, ma anche negli altri due grandi hotspot mondiali di biodiversità, la foresta tropicale del Congo e quella indonesiana – è il commercio internazionale, che richiede quantità crescenti di prodotti quali soia, carne, cacao, caffé, olio di palma, ma anche legname, a prezzi sempre più competitivi. «Si tratta di prodotti – spiega il professore – che perlopiù non vengono consumati nel luogo di produzione, ma che sono destinati all’esportazione, e i cui beneficiari sono, solitamente, le regioni del “primo mondo”: Stati Uniti, Europa e, da alcuni anni, anche la Cina. È la cosiddetta “deforestazione incorporata”, un’impronta nascosta di deforestazione che noi compriamo, spesso inconsapevolmente, insieme a molti dei prodotti che finiscono sulle nostre tavole o nelle nostre case».

Questo suggerisce come sia impossibile affrontare il problema della deforestazione con un approccio strettamente geografico – relegandolo, cioè, nei luoghi fisici in cui il fenomeno avviene: produttori (perlopiù Paesi in via di sviluppo) e consumatori (molto spesso i Paesi industrializzati, ma in generale tutti gli attori del commercio internazionale) sono corresponsabili della distruzione delle foreste tropicali, ed è perciò necessario che la questione sia affrontata attraverso l’impegno trasversale da parte di tutte le nazioni e degli organismi sovranazionali, riconoscendo come si tratti, effettivamente, di un problema di portata globale, che riguarda la società umana nel suo complesso. Le azioni che bisogna intraprendere, dunque, non devono concentrarsi solamente “a valle”, laddove avviene la deforestazione; bisogna contemporaneamente agire “a monte”, ad esempio ridefinendo le esigenze di mercato e diminuendo drasticamente l’importazione di beni per la produzione dei quali vi è stata deforestazione o degrado ambientale.

Vi è, poi, un paradossale risvolto negativo secondario della massiccia importazione di prodotti che sono frutto della deforestazione: si tratta del progressivo abbandono delle nostre risorse agricole e forestali. In Italia, questo processo è lampante: come sottolinea Vacchiano, «un chiaro esempio di questa tendenza è il commercio del legno: l’Italia importa dall’estero l’80% del legno che utilizza, nonostante le sue foreste siano in aumento e nonostante molte di queste non siano poste sotto tutela ambientale, ma siano lasciate all’abbandono, anche laddove potrebbero essere utilizzate per scopi economici con piani di gestione che ne garantiscano la sostenibilità dello sfruttamento. Peraltro, l’importazione di legname pregiato implica, con buona probabilità, che la risorsa sia stata prelevata dal luogo d’origine con modalità non sostenibili per l’ecosistema da cui proviene: il degrado ambientale, cioè l’impoverimento di un ambiente – come le foreste tropicali – in termini di biodiversità, è il primo passo del sovrasfruttamento di foreste intatte e, dunque, fa da anticamera per la deforestazione».

Oltre ad avere effetti positivi dal punto di vista ambientale, dunque, la valorizzazione delle risorse nostrane potrebbe contribuire all’instaurazione di un circolo virtuoso in campo sociale ed economico, ravvivando settori, come quello della manifattura primaria del legno, da tempo in declino.

«Bisogna agire, allora, su entrambi i fronti: da una parte, evitare di finanziare prodotti dall’alto costo ambientale – come i legni pregiati di origine tropicale – anche attraverso un più saggio sfruttamento delle risorse disponibili nei nostri territori; dall’altra, parallelamente, non rinunciare a contrastare la deforestazione, attraverso una più trasparente regolamentazione dei prodotti agroalimentari che da essa dipendono. Nessuno, oggi, paga il costo dei numerosi danni (prima di tutto ambientali, ma anche sociali) causati da questo tipo di produzione: una delle strade che l’Unione Europea ha intrapreso in tal senso è l’imposizione, per i produttori, di tracciare con precisione la provenienza di alcuni dei prodotti che arrivano nei mercati europei. È difficile valutare l’efficacia di una simile soluzione, soprattutto perché nei paesi d’origine di molti prodotti la corruzione è ancora dilagante, e spesso non si è in grado di verificare la veridicità della documentazione presentata».

«È d’altro canto essenziale – conclude Vacchiano – che, contemporaneamente all’implementazione di interventi legislativi e commerciali, si lavori per aumentare la sensibilità dei cittadini nei confronti di questi temi: l’eventualità di degradare le foreste primarie fino al punto di perdere i loro servizi ecosistemici – tra cui la loro funzione di “pozzo di carbonio” (carbon sink), essenziale per la mitigazione del cambiamento del clima – va evitata ad ogni costo: le foreste sono, per l’uomo, degli alleati strategici che non possiamo permetterci di perdere».

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