Foto: Raffaella Raspini/Unsplash
Se è vero che natura non facit saltum – si chiedeva Charles Darwin – come spiegare l'improvvisa comparsa e diffusione delle angiosperme, le piante da fiore, a partire da circa 135 milioni di anni fa? Il grande naturalista si arrovellò per tutta la vita su tale quesito, e non giunse mai a una soluzione: era – come lo definì in una lettera indirizzata all’amico Joseph Hooker nel 1879 – un “abominevole mistero”. E lo è, in parte, ancora oggi: nonostante, rispetto all’epoca di Darwin, i dati a nostra disposizione siano molto più numerosi, la controversia non è ancora stata completamente risolta, e gli studiosi continuano ad avanzare o a sostenere ipotesi diverse.
È certo, tuttavia, che la comparsa e la rapida diversificazione e diffusione delle angiosperme, i cui primi reperti fossili risalgono a circa 135 milioni di anni fa, modificarono profondamente i paesaggi e gli ecosistemi dell’intero pianeta in un periodo di tempo molto breve da un punto di vista geologico.
È interessante, in primo luogo, comprendere il contesto storico all’interno del quale Charles Darwin, padre della teoria evoluzionistica, sviluppa le proprie ricerche intorno allo “strano caso” delle piante da fiore. Come spiega il professor Renato Bruni, docente di Botanica e Biologia farmaceutica all’università di Parma, il grande naturalista «non riusciva a trovare prove adeguate della progressiva differenziazione di quelle che lui chiamava higher plants, e che molti hanno poi inteso come le angiosperme. Questa è una prima incertezza che, anziché indebolire, ha alimentato e alimenta tutt’ora il lavoro di decine di scienziati. Da quella sfumatura, infatti, sono decollati studi sui fossili delle angiosperme, cacce paleobotaniche all'antenato progenitore delle piante da fiore, ricerche su cause e dinamiche che hanno permesso alle angiosperme di soppiantare quasi ovunque le gimnosperme e le crittogame predominanti fino al Cretaceo».
Dai tempi di quella lettera a Hooker, la classificazione tassonomica in campo botanico è stata modificata molte volte: le higher plants su cui si concentrava Darwin non erano, probabilmente, le angiosperme nella loro totalità, ma solo le dicotiledoni, mentre riteneva che le monocotiledoni fossero comparse già prima del Cretaceo, nonostante non avesse prove fossili a conferma di questa ipotesi. «Qualunque fossero le higher plants di Dawin – prosegue Bruni – l’improvvisa esplosione delle angiosperme resta priva di una spiegazione univoca e inequivocabile. Né le ulteriori analisi paleobotaniche né l’uso di nuove tecnologie come quelle molecolari hanno dipanato in modo risolutivo la matassa, e ad essa si sono aggiunte anche altre domande. Ad esempio, oltre a collocare con precisione l’inizio del successo delle angiosperme, bisognerebbe accertare anche da dove questo possa essersi originato, e quali vantaggi differenziali possiedano le angiosperme. Due cose, oggi, sono però certe: da una parte, l’evidenza dei reperti fossili a conferma della dominanza delle angiosperme verso la fine del Cretaceo, e, dall’altra, la tendenza dei sistemi di analisi genetico-molecolare nel retrodatare la loro comparsa forse addirittura al Triassico».
Oggi, infatti, le conoscenze circa il processo evolutivo che ha portato le angiosperme a un duraturo successo adattativo sono note nei loro aspetti essenziali. «Sappiamo – sottolinea il professor Lorenzo Peruzzi, docente di Botanica sistematica all’università di Pisa – che le piante da fiore si sono originate da precedenti gruppi, ora estinti, di piante da seme, che avevano evoluto la capacità di proteggere i propri ovuli (le strutture che divengono semi dopo la fertilizzazione) all'interno di ovari (le strutture che divengono frutti). In piante di questo tipo, a un certo punto, sono comparsi anche nuovi tipi di foglie trasformate, adatti a funzionare da “richiamo” per alcuni animali (prevalentemente insetti): i futuri fiori. Ciò ha scatenato una serie di complesse dinamiche co-evolutive, che hanno portato alla diversificazione delle angiosperme nella straordinaria varietà di forme attuali, che oggi colonizzano quasi ogni ambiente emerso».
Ad alimentare il dibattito sul tema è la discrasia che si riscontra tra le due principali tipologie di dati disposizione, quelli paleontologici e quelli molecolari. I primi sembrano accreditare l’ipotesi di una comparsa repentina e di un’altrettanto rapida diffusione delle angiosperme in tutto il globo intorno ai 135 milioni di anni fa, durante il Cretaceo; i secondi, invece, retrodatano di molto la comparsa delle piante da fiore, addirittura a oltre 200 milioni di anni fa. «È stato recentemente ipotizzato, tramite approcci di molecular clock (orologio molecolare), che le angiosperme potrebbero essersi originate tra i 247 e i 136 milioni di anni fa, iniziando la loro diversificazione a partire dal tardo Giurassico ma divenendo dominanti in quasi tutti i biomi terrestri soltanto nel Paleocene (56-66 milioni di anni fa)», illustra Peruzzi. «Anche le principali famiglie botaniche di piante da fiore, dalla loro origine alla loro effettiva radiazione evolutiva, hanno avuto un periodo di latenza di diverse decine di milioni di anni. Immaginando un paragone – forse un po' azzardato – fra le dinamiche evolutive e un esplosivo, l'accensione risulta in generale separata dall'innesco dell'esplosione da una “miccia evolutiva” abbastanza lunga. Tutte le principali linee evolutive di angiosperme si sarebbero originate in ambito tropicale, per poi colonizzare anche le aree del pianeta a clima temperato e arido, sino ad affermarsi in tutto il pianeta».
D’altra parte, se si guarda alla questione da una prospettiva che potremmo definire “meta-scientifica”, ci si rende conto di come il valore di questa diatriba non consista primariamente nella sua eventuale risoluzione. È Renato Bruni a evidenziare questo aspetto: «Per molti è bizzarro che il dubbio di Darwin resti tale, nonostante l’avanzamento delle tecnologie e generazioni di scienziati. In modo provocatorio, si potrebbe sostenere che non è importante risolvere quel mistero. La ricerca, soprattutto in questi ambiti, dovrebbe scrollarsi di dosso l’ossessione ereditata dalla tecnologia per il mito del risultato, della risposta giusta e finale. La mancata convergenza di due sistemi differenti (quello paleobotanico centrato sui fossili e quello molecolare basato su modelli) è un esempio di come le spiegazioni possano e debbano includere incertezze e imprecisioni, e di come sia essenziale trovare il modo giusto per raccontarle, affinarle, ridurle gradualmente con l’incorporazione di nuovi dati».
«Ambedue le ricostruzioni – prosegue Bruni – presentano pro e contra. I fossili sono evidenze tangibili, ma nel caso delle piante possono soffrire di limitazioni dovute alla fragilità di alcune componenti strutturali che riducono la probabilità della conservazione a lungo termine, cosa che non avviene ad esempio con gli scheletri degli animali. Inoltre, l’ipotesi secondo la quale l’esplosione delle angiosperme sarebbe legata all’ambiente acquatico, e il fatto che i fiori siano presenti in un periodo di tempo molto limitato, riduce ulteriormente la probabilità di trovarne in quantità sufficienti.
Le ricerche basate sui modelli molecolari, che usano la frequenza delle mutazioni per definire il fluire delle speciazioni e risalire a ritroso nel tempo per datare la comparsa di progenitori comuni, a loro volta dipendono dai fossili, che possono essere usati per calibrare il calcolo. Questo è sia una forza che una debolezza: pur offrendo un riferimento, il loro numero potrebbe non essere adeguato a generare un modello robusto, oppure la loro scelta potrebbe non essere appropriata e guidare quindi il modello verso conclusioni inesatte. Inoltre, nel caso delle piante, è possibile che subentrino eventi come la poliploidia, oppure che si usino modelli basati sul DNA plastidiale anziché su quello nucleare: tutti fattori che possono confondere le acque. Secondo i detrattori di questo approccio i modelli stessi, intrinsecamente, avrebbero la tendenza fisiologica a spostare indietro le lancette a prescindere dalla qualità e dalla quantità dei reperti fossili usati per la calibrazione».
Difficile, dunque, sulla base dei dati disponibili, dare conto dell’interpretazione darwiniana, fortemente gradualista. Ad oggi, sembra essere particolarmente accreditata un’ipotesi intermedia: «È vero – afferma Lorenzo Peruzzi – che non abbiamo evidenze fossili di eventuali “stati di transizione”, ma è altrettanto vero che sia le attuali angiosperme, sia le attuali gimnosperme si sono originate da gruppi ormai estinti di cosiddette “pteridosperme”, peculiari fossili con aspetto di felci che già, però, producevano semi. Mentre approcci che usano l'orologio molecolare datano questa separazione anche sino al Triassico (200-250 milioni di anni fa), la gran parte dei fossili sicuramente riferibili ad angiosperme ha datazioni molto più recenti. D'altro canto, negli ultimi vent’anni si sono succeduti svariati rinvenimenti di fossili, attribuiti ad angiosperme, con datazioni non così distanti da quanto proposto dall'approccio molecolare. La gran parte di questi fossili particolarmente antichi sono, però, di interpretazione assai controversa. Bisogna arrivare almeno a circa 120 milioni di anni fa per iniziare a trovare abbondanza di reperti fossili di certa attribuzione».
Foto: Marie Evano/Unsplash
Recentissime scoperte, tuttavia, sembrano dare nuova linfa all'ipotesi gradualista darwiniana, secondo la quale l'evoluzione delle angiosperme sarebbe stata lenta e prolungata nel tempo, e magari verificatasi originariamente in un “continente perduto” (che alcuni hanno identificato nella Zealandia). «Le due visioni, apparentemente alternative, sulla storia di questo vastissimo gruppo di vegetali, potrebbero non essere così inconciliabili e incompatibili», segnala Peruzzi. «È proprio di quest'anno uno studio che, basandosi esclusivamente su fossili e stime probabilistiche, ipotizza un rapido e graduale accumulo di linee evolutive di piante da fiore fra i 125 e i 75 milioni di anni fa, suggerendo quindi che l’origine dell'intero gruppo sia da collocarsi in un periodo precedente, che coincide – in modo sorprendente – con quanto risulta dall'approccio molecolare. Da questo punto di vista, riprendendo la romantica ipotesi darwiniana del “continente perduto” che potrebbe essere stata la culla evolutiva delle prime angiosperme, forse lo studio futuro di rocce sedimentarie dell'antica Zealandia potrebbe serbare alcune sorprese: potrebbero emergere, ad esempio, inattaccabili documenti fossili riferibili alle prime piante a fiore. Ovviamente vi sono rilevanti difficoltà logistiche nel pianificare campagne di ricerca in questo senso: questo ampio territorio, un tempo parte del paleo-continente Gondwana, dal tardo Cretaceo risulta per il 94% sommerso sul fondo dell'Oceano Pacifico, a Sud-Est dell'Australia».
Comprendere la storia delle angiosperme, in ogni caso, è importante perché può aiutarci a far luce su altri processi che hanno segnato la storia della vita sulla Terra, come è evidenziato, ad esempio, da un recente studio comparso su Nature che documenta la correlazione tra l’evoluzione delle angiosperme, il livello di ossigeno presente in atmosfera e il regime degli incendi nel Cretaceo. La radiazione delle angiosperme, qualunque ne siano state le modalità, potrebbe aver avuto, in quei tempi remoti, un ruolo rivoluzionario nel plasmare gli ecosistemi, contribuendo ad esempio a creare un ambiente più abitabile per le attuali forme di vita, umani compresi.
«Quando si dice che gli organismi autotrofi sono la base della vita sulla terra – mette in luce Renato Bruni – non ci si riferisce solo alla verità, forse ovvia, circa la loro funzione basilare nelle catene trofiche di tutti i viventi, ma si intende anche un aspetto inerente al loro contributo nella creazione di nicchie ecologiche, di rapporti coevolutivi, di manipolazione di macro e microhabitat che costituiscono driver fondamentali nei processi di speciazione e di supporto alla biodiversità. Il successo delle angiosperme (sono i fossili a confermarcelo) ha accelerato la diversificazione e ampliato il ventaglio della speciazione in molti altri rami dell’albero della vita, da quello interno delle piante epifite a quello degli insetti. La curva di crescita tra le specie di coleotteri, insetti fitofagi e impollinatori è strettamente legata a quella delle angiosperme, la cui differenziazione ha “trainato” con sé la diversità globale».
Foto: James Fitzgerald/Unsplash
Il fuoco, poi, è da sempre un fattore essenziale nel modellare paesaggi ed ecosistemi. Prosegue Bruni: «Se identifichiamo in Prometeo il personaggio mitologico che donò il fuoco all’umanità, forse dovremmo immaginarlo come un titano verde e legnoso. La possibilità di veder correre le fiamme è infatti legata alla disponibilità di piante adattate alla terraferma: senza piante non c’è nulla da bruciare. Già prima dell’arrivo della nostra specie, gli incendi non sarebbero stati possibili senza boschi e foreste, e i fulmini o la lava non avrebbero avuto nulla a cui appiccare il fuoco se non ci fossero state piante preistoriche da bruciare. I depositi di carbone più antichi sono datati 420 milioni di anni, quando le prime piante vascolari si stavano evolvendo. Nel corso del Carbonifero le gimnosperme hanno poi dovuto adattarsi a incendi più frequenti, anche per via del maggiore contenuto atmosferico di ossigeno (fino al 35%, contro il 21% odierno). Quando poi le Angiosperme hanno iniziato a erodere loro spazio prezioso, lo hanno probabilmente fatto giovandosi anche di una migliore gestione del più scottante degli elementi. Ad esempio, la loro rigenerazione dopo le fiamme è più rapida e la loro maggiore plasticità potrebbe aver permesso di “usare” il fuoco per rendersi più competitive rispetto alla gimnosperme. Negli habitat odierni si stima che circa l’80% delle piante presenti adattamenti specifici dovuti al fuoco, e che se ne serva per vincere la competizione di specie invasive: finché tutto va in cenere con la giusta periodicità, gli abitanti hanno dalla loro la resilienza per ripopolarle, mentre quando il ritmo si modifica altri possono subentrare».
«È interessante notare, inoltre – conclude Bruni –, che da quando piante e animali hanno colonizzato la terra circa 400 milioni di anni fa, l'ossigeno atmosferico è rimasto compreso tra il 16 e il 30%. Simili valori sottendono precisi regimi e frequenze di incendi. Al di sopra del 30% di ossigeno atmosferico si stima che la frequenza e l’entità degli incendi sopprimerebbero la vegetazione al punto da impedire la formazione di grandi ecosistemi forestali. È probabile che il successo delle angiosperme durante il Cretaceo sia stato determinato da una concomitanza di più fattori, tra cui il fuoco. E chissà, magari proprio quegli incendi hanno trasformato in cenere anche molte delle prime angiosperme, rendendo ancora più difficile la caccia a quei fossili così preziosi per risolvere il mistero di Darwin».