SOCIETÀ

Una lunga e densa storia di fragilità

A Milano come a Palermo. Venerdì scorso il capoluogo lombardo ha subito l’ennesima inondazione a causa di una pioggia molto forte. Lo stesso era avvenuto a Palermo soli pochi giorni prima. I media parlano di “bombe d’acqua”, una libera traduzione dall’inglese cloudburst: letteralmente esplosione di nuvola. Un fenomeno che in termini meteorologici significa la caduta di almeno 30 millimetri di acqua in un’ora o di almeno 50 millimetri in due ore. 

Uno schiaffo estivo piuttosto robusto. A Palermo in due ore di millimetri di acqua ne sono caduti 130! Il fatto che in un lasso di tempo così breve in pieno luglio sia arrivato questo schiaffo tanto a Nord (Milano) quanto a Sud (Palermo) propone – anzi, ripropone –  alcune domande: la frequenza di questi eventi meteorologici estremi è aumentata negli ultimi tempi? Come facciamo a verificarlo? E davvero coinvolge tutta l’Italia? E l’Europa? 

Proviamo a rispondere.

            Un diluvio d'acqua [...] che si ritiene non ci fosse stato dal tempo di Noè. Furono ridotti in rovina campagne e borghi, ci furono grosse perdite di vite umane e animali. Furono spazzati via i sentieri e distrutte le strade; il livello dell'Adige salì fino a raggiungere le finestre superiori della basilica di San Zeno martire, che si trova fuori le mura della città di Verona [...]. Anche una parte delle mura della stessa città di Verona fu distrutta dall'inondazione.

Così Paolo Diacono, uno dei più grandi cronisti dell’alto Medio Evo italiano, descrive nella sua Historia Langobardorum, ultimata nel 789, la Rotta della Cucca: la grande alluvione che aveva colpito il Veneto il 17 ottobre 589. Era stato l’Adige a straripare.  Paolo Diacono la descrive, quella catastrofica Rotta della Cucca, sulla base degli scritti di un cronista forse più autorevole e certo testimone più ravvicinato, Gregorio Magno, che sarà eletto papa nel 590, l’anno successivo all’inondazione. È Gregorio il primo a redigere le cronache della Rotta della Cucca. 

Paolo Diacono, migliore storico del suo tempo, la riprende. Ma ne scrive, a due secoli di distanza, non per mero interesse storico. Al contrario, perché sul finire dell’VIII secolo il “rischio idrogeologico” nel Veneto è tutt’altro che cessato. Le alluvioni, gli straripamenti, le deviazioni dei corsi dei fiumi continuano con stressante frequenza. Molti, al tempo di Paolo Diacono, ritengono che sia stata proprio la Rotta della Cucca del 589 a innescare, per volontà divina, la serie di eventi catastrofici che, nel corso dei due secoli successivi, hanno portato a ridisegnare la mappa idrografica della regione e, in particolare, della rete dei fiumi che sfociano nella laguna di Venezia. 

Oggi sappiamo che quei secoli – in cui, almeno in Occidente, giunge al tramonto la civiltà romana senza che nulla sembra venire a sostituirla, tanto da meritare a quei secoli l’aggettivo “bui” – furono resi oscuri anche da una serie di fenomeni meteorologici estremi generati da cambiamenti del clima e che, in Veneto, determinano alluvioni, straripamenti, deviazioni dei corsi dei fiumi, trasformazioni radicali della laguna che mandano «in rovina campagne e borghi» e determinano «grosse perdite di vite umane e animali». 

Da Nord a Sud. Dalla fine del VI all’inizio del XX secolo. Ecco come Corrado Alvaro, autore nel 1930 dell’impareggiabile Gente d’Aspromonte, descrive in un racconto, Alluvione in Calabria, cos’è e cosa può diventare una fiumara nella regione più povera d’Italia.

            Non si ha idea di che cosa sia un'alluvione in Calabria. Non è la tragedia delle potenti dighe che crollano, del mare che irrompe; fatti che muovono alla solidarietà e al soccorso popoli e nazioni. No. È qualcosa di tragicamente povero come è povero il paese... 

            Per vivere, per alimentare un'industria che dà lavoro, i Calabresi spiantano i boschi. Di conseguenza le loro montagne crollano, si spianano le valli, orti e paesi sono cancellati dalla sabbia che le alluvioni passano allo staccio.

            In una giornata che non prometteva niente di buono, un viaggiatore aveva urgenza di raggiungere un comune: Platì. Poteva fermarsi al primo allarme, appena l'Aspromonte diventò colore della cenere, e aspettare di riprendere il viaggio il giorno seguente. Ma la natura laggiù a volte pare scherzare, fa grande fracasso, dispone le batterie dei suoi tuoni rotolanti pei monti e le nubi, mentre il sole apre scene mai vedute; boschi e paesi remoti e alberi, e uomini e armenti si vedono nitidi lontano tra una cortina di nuvole, come un palcoscenico improvvisamente illuminato. 

            Il viaggiatore imboccò la valle della fiumara, tra i ruscelli che scendevano placidi nelle rughe di quelle distese di ghiaia bianca e sonora. Ma dalle rive lontane, dai colli, dai greppi, i pastori coi loro cappucci a punta accennavano a lui di lontano; ed egli non capiva. E di colpo, come se la montagna l'avesse con lui, scorgendolo così zelante e ostinato, la tempesta lo circondò, dalla strettura della valle il canto lontano dell'acqua divenne un ruggito. Egli fece in tempo a rifugiarsi in una grotta su un dirupo, mentre il letto bianco di ghiaia divenne qualcosa di sporco e di mobile: veniva avanti come un armento urlante, un sudicio elemento che spingeva a balzelloni, per trofeo, grandi alberi di olivo diritti e rotanti, isole di terra erbose, capanne e animali. 

L'urlo dell'acqua era un misto terrificante di campane a martello, di suoni d'organo, di implorazioni e pianti, e perfino qualcosa come un canto enorme. L'uomo arrivò il mattino seguente al paese.              Un paese squallido come un cane affogato...

La cronaca, differita, dello storico Paolo Diacono e il racconto di Corrado Alvaro sembrano dimostrare che l’Italia tutta, per la sua origine geologica e per la sua natura orografica, sia da sempre interessata tutta da un alto «rischio idrogeologico». 

I due, Diacono e Alvaro, hanno colto nel segno. Una solida documentazione scientifica oggi dimostra che questo rischio, nel recente passato, si è riproposto in tutte le regioni d’Italia con notevole frequenza, causando – tra il 1918 e il 1990 – oltre 470.000 frane, 56.648 delle quali hanno prodotto danni a uomini e/o animali e/o cose; oltre 20.000 località sono state colpite da inondazioni; che questo dissesto ha provocato 7.668 morti (15 al mese, in media) e danni economici per 142.103,2 miliardi di lire (72 miliardi di euro): 273 miliardi di lire (140 milioni di euro) al mese, 9 miliardi di lire (4,5 milioni di euro) al giorno. I fenomeni si sono accentuati dal 1990 a oggi.

Già, ma come facciamo a fidarci di testi come quelli di Diacono e di Alvaro che, per quanto autorevoli, non sono frutto di un’indagine scientifica? Come facciamo a fare una comparazione di tipo storico, tra il presente e il passato, se le fonti dei tempi in cui non c’erano rilievi scientifici con strumenti di precisione sono venate da “soggettività”, come sostenevano con marcato scetticismo meno di venti anni fa, lo storico del clima Christian Pfister e il climatologo Heinz Wanner?

Una risposta è venuta nei giorni scorsi da Günter Blöschl e da un nutrito gruppo di suoi colleghi che hanno vinto e portato a termine un progetto ERC sui cambiamenti degli eventi di inondazione. Spulciando archivi e cercando riprove oggettive, il gruppo ha ricostruito la storia delle inondazioni in Europa dal 1500 al 2016. In pratica hanno studiato le principali inondazioni da parte di 103 fiumi europei nel corso di mezzo millennio. Trovando che ci sono stati almeno nove periodi in cui le esondazioni sono state particolarmente frequenti e violente. 

Le principali sono state quelle del periodo 1560–1580 (Europa occidentale e centrale); del 1760–1800 (la gran parte dell’Europa); del 1840–1870 (Europa centrale e meridionale). C’è infine il periodo più recente, dal 1990 al 2016, che ha interessato l’Europa centrale e occidentale. L’articolo, pubblicato giovedì scorso su Nature, poco dopo Palermo (16 luglio) e poco prima di Milano (24 luglio), fornisce tre importanti indicazioni: a) mostra come Italia e il Settentrione in particolare sono spesso stati presenti in questi eventi meteorologici estremi; b) mostra come il periodo più recente di inondazioni, periodo nel quale tuttora viviamo, sia l’unico tra quelli selezionati avvenuto in una fase di aumento della temperatura media e non di diminuzione; c) dimostra che nella ricostruzione della storia passata, sia pure con mille precauzioni, le fonti ritenute “soggettive” come quelle di Paolo Diacono o di Corrado Alvaro vanno tenute in serie considerazione. Non sono verità scientifiche ma non possono neppure essere considerate bufale (o fake news, come chissà perché si dice oggi).  

Ci sono poi fonti storiche che sono prive di “soggettività” anche se fornite da persone senza background scientifico. Una tipologia di queste fonti “esatte” anche se non “scientifiche” è la fotografia.

Fabiano Ventura è per l’appunto un fotografo che ha ideato e dirige il progetto Sulle tracce dei ghiacciai. Alla ricerca del passato per un futuro sostenibile che ha due fasi: a) una poderosa ricerca di archivio di fotografie di ghiacciati di un secolo fa; b) lo scatto di fotografie dal medesimo posto e con la medesima inquadratura di quelle del passato per vedere cosa è cambiato in un secolo.

Il progetto è iniziato nel 2009 sui ghiacciai del Karakorum (a nord-ovest dell’Himalaya); è poi proseguito su quelli del Caucaso (2011), dell’Alaska (2013), delle Ande (2016), dell’Himalaya (2018) e ora è appena iniziato il viaggio sulle nostre Alpi. Ora Ventura per un tour estivo è sui ghiacciai del Monte Bianco; poi sarà sul Gran Paradiso; sul Monte Rosa; sull’Ortles-Cevedale; sull’Adamello e, infine, a inizio settembre sulla Marmolada.

L’impresa non è solo di valore documentaristico, ma ha anche un’eccezionale valore scientifico. Tant’è che non solo è sponsorizzata da numerosi università e centri di ricerca, ma è portata avanti da un nutrito gruppo di glaciologi. L’interesse scientifico è evidente. Per due motivi: intanto perché mostra come reagiscono i ghiacciai ai cambiamenti climatici (la gran parte vede regredire la superfice occupata, sia pure con velocità diverse). Ma qualcuno addirittura le vede aumentare, per fattori anche indipendenti dal clima. A dimostrazione che anche i ghiacciai sono sistemi complessi con non rispondono in maniera strettamente deterministica al climate change. Ma, nell’ambito del nostro discorso, il progetto di Fabiano Ventura dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che anche le fonti dense di “soggettività” – in fondo anche una foto scattata un secolo fa per motivi ludici lo è – possono essere utili a fini scientifici. Così come le storia postuma di Paolo Diacono o i racconti di Corrado Alvaro. 

Per quanto riguarda l’Italia tutte queste fonti – quelle “soggettive” e quelle scientifiche – sono tutto sommato coerenti. Abbiamo una lunga e densa storia di fragilità idrogeologica: da Verona all’Aspromonte; da Palermo a Milano. Ma da questa storia lunga e densa abbiamo, finora, appreso poco.

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