Un romanzo sottile, dal passo corto ma dal respiro profondo. È quello di Francesca Scotti, classe 1981, che non a caso si intitola Capacità vitale (Bompiani, 2019), ossia quanto fiato si possa trattenere nei polmoni riempiendoli a dismisura. La protagonista, una giovane avvocatessa, si lascia scorrere la vita tra le dita, come fossero granelli di sabbia (e la sabbia, i piedi, lo sguardo basso sono qui temi ricorrenti, quasi ossessivi) fino a quando, come uno schiaffo in pieno viso, non arriva la morte. Che la scansa. È una sopravvissuta, per una volta ancora.
Non importa quanta “capacità vitale” Adele abbia, Scotti in questo breve e tagliente romanzo ci vuole mostrare, viceversa, attraverso il suo nascondersi più testardo, la fragilità della protagonista, e per traslato di tutti. Adele è ferita, ma appare imperturbabile, e così persevera. Persevera nel non lasciare che un uomo la rincuori, persevera nel difendere due allevatori di maiali dalle accuse di maltrattamento sporte nei loro confronti.
Questo è il modo in cui è possibile prendere le cose, sembra dire l’autrice, ma una via di uscita in direzione autentica c’è e va cercata. Anche a costo di “non aver nulla da aggiungere, Vostro Onore” e di lasciare che il sistema deflagri e collassi su se stesso, travolgendo chi “alza le mani” nella valanga, estremo gesto di salvezza.
La costellazione di personaggi che ruotano intorno ad Adele è come se, con lei, costituisse una fragile figura in equilibrio precario: Zoe, figlia dell'amica che non c'è più, diviene la voce emersa della coscienza della protagonista, denunciando per prima l’orrore cui gli animali da macello sono sottoposti, ma anche domandandosi (e domandandole) cose come: “Anche io sono sola, ma per me è normale, ho quindici anni e sono in una città che mi fa schifo. Trovi che sia bello esser soli?”. Poi c’è Matteo, il giovane uomo cui Adele non vuole assolutamente aggrapparsi ma insieme al quale finirà per prendere il respiro, dopo un’apnea troppo lunga (la disgrazia che li ha solo sfiorati è avvenuta sott’acqua nel mare, in un continuo gioco di rimandi). La comunicazione tra i due è liquida, fatta di corpi e soprattutto di silenzi: “Lui si avvicina, la abbraccia di nuovo. La tiene stretta, davvero stretta, è possibile, sta succedendo”. E vicinissima ad Adele c’è Ines, la nonna, che è stata per lei l’universo quando all’improvviso si è trovata orfana, ma la cui presenza va sfaldandosi inesorabilmente.
In un’atmosfera rarefatta in cui le cose appaiono soprattutto scarne, Francesca Scotti restituisce la complessità dell’esistenza, la distanza che ciascuno mette tra sé e il mondo, immergendoci contemporaneamente nella poesia del mare che inghiotte e nell’agone del tribunale, dove si suppone che giustizia terrena venga compiuta. Con sguardo di speranza.
“ Ognuno è nel proprio "adesso". Perché, quel giorno, io non ero sott'acqua? Perché Matteo è tornato? Perché lui? Perché io?