CULTURA

L’arte come geografia dell’esilio: le storie dai campi profughi del mondo

L’esule è, per definizione, straniero dappertutto. È però proprio questa condizione di sradicamento – segnata dal dolore e dalla perdita, ma spesso anche da una particolare lucidità – a renderlo una figura centrale nella comprensione del contemporaneo. A partire dal Novecento l’esilio non è stato solo una condanna, ma anche una condizione esistenziale da cui scaturisce una speciale sensibilità: quella di chi osserva da fuori, registrando prima degli altri le faglie della storia.

Lo ricordava con forza l’ultima edizione della Biennale d’Arte di Venezia, Stranieri ovunque, Foreigners everywhere – constatazione e monito insieme: lo ribadisce ora Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati del mondo, la mostra appena portata a Padova dalla Fondazione Imago Mundi, in collaborazione con l’Università di Padova e l’assessorato alla cultura del Comune. Dopo l’esordio a Treviso l’esposizione raggiunge dunque un’altra tappa, caricandosi di nuovi significati.

La mostra Out of Place della Fondazione Imago Mundi

Il titolo prende spunto dal capolavoro memorialistico di Edward Said, Out of Place (1999), dove il critico palestinese riflette sulla propria condizione di intellettuale “dislocato”. Qui però lo spaesamento va oltre la biografia e la geografia: è artistico ma anche politico. Lontani dai centri culturali e privi di mezzi, gli autori in mostra fanno dell’esilio la propria grammatica espressiva. Come scrive Said, l’esilio produce un “punto di vista eccentrico”, una capacità di osservare da fuori e, proprio per questo, in profondità. Le 284 opere esposte – nei piccoli formati 10x12 cm, caratteristici della Imago Mundi Collection – più che di rifugiati parlano di artisti, capaci di narrare il mondo con uno sguardo obliquo, laterale e per questo necessario.

Aperta fino al 31 luglio tra il Cortile Antico del Bo e il Giardino Pensile di Palazzo Moroni, la mostra accoglie 284 opere realizzate da 264 artisti provenienti da 18 campi rifugiati in tutto il mondo: da Za’atari in Giordania a Kakuma in Kenya, da Kutupalong in Bangladesh – il campo più popoloso al mondo, rifugio della comunità rohingya – ai confini del Sahara algerino dove sopravvivono i saharawi. Ma anche voci afghane, curde, yazide, vietnamite, ucraine, sudamericane. La mappa è globale, le storie radicalmente singolari. È questo il cuore pulsante della mostra: opporsi alla retorica dell’“ondata”, della massa indistinta, con la forza dell’individualità. Ogni opera è una dichiarazione di esistenza, ogni artista un nome, un volto, una storia.

La curatrice della mostra: Irina Ungureanu

“La mostra cerca di dare voce agli artisti che abitano in questi spazi – ha dichiarato Irina Ungureanu al nostro giornale -. Permette loro di  creare per loro la normalità, è un'opportunità di far sentire le proprie storie e di presentarsi in quanto artisti. Con  il supporto della Fondazione Imago Mundi, la mostra offre anche un catalogo complesso di quasi 700 pagine, dove oltre le opere vengono presentate anche le storie degli artisti, il loro percorso, la loro evoluzione e in questo modo creando un'immagine del nostro mondo dove anche le più grandi difficoltà vengono superate attraverso in questo caso l'arte”.

Out of Place è un modo di far emergere le persone che, sembra scontato dirlo ma troppo spesso nella realtà non lo è, dovrebbero essere il centro di tutto. Soprattutto quando si parla di campi infatti i profughi diventano solamente dei numeri. “Far emergere le persone è importantissimo, perché già il semplice fatto che queste si possano trovare a un certo punto della loro vita a vivere condizioni di costrizione, di vivere in campi per rifugiati in conseguenza di persecuzioni politiche, etniche, religiose o di altra natura fa perdere loro il volto – spiega Irina Ungureanu –. Riuscire a dar voce, a creare uno spazio di normalità è estremamente fondamentale e quindi è questo che il progetto cerca di fare: dare profondità a ognuno di questi artisti e creare il veicolo attraverso il quale le loro voci vengano sentite”.

Le storie inserite in Out of Place

Spesso l’esilio è anche eredità. L’artista MyLoan Dinh, di origine vietnamita ma residente negli Stati Uniti, incornicia una foto di famiglia con la plastica di una borsa da spesa, tipica “valigia” dei rifugiati, mentre frammenti di gusci d’uovo evocano la fragilità e la memoria. In un’altra opera, Youssef Al-Shuwaili ritrae una madre con un neonato e una granata: maternità e guerra in cortocircuito, icona contemporanea della sofferenza mediorientale.

Ma Out of Place non è solo una mostra di dolore. È soprattutto una testimonianza della forza espressiva che germoglia nei luoghi più inospitali. I campi non sono solo luoghi di sospensione, ma secondo i curatori vere e proprie “città accidentali”. Lavori come quelli della regista congolese Aminah Rwimo nel campo di Kakuma, o del fotografo Abir Abdullah, che documenta la diaspora rohingya, mostrano che anche nella precarietà si costruiscono comunità, si sviluppano linguaggi, si crea arte.

Emerge qui un tema centrale della cultura del Novecento: l’esilio come condizione fondante della modernità. Pensiamo a Thomas Mann, Stefan Zweig, Marina Cvetaeva, Walter Benjamin. Tutti intellettuali forzati a vivere altrove, portatori di una cultura diasporica che ha segnato la letteratura e la filosofia del secolo scorso. Ma l’esilio del Novecento è ancora con noi, anzi si è moltiplicato. L’UNHCR stima oltre 120 milioni di persone costrette alla fuga: il rischio è quello di trasformarli in numeri. L’arte, al contrario, restituisce la parola, il volto, la dignità.

In questo senso Out of Place, al tempo stesso atlante e canto collettivo, ci interroga anche sulle forme dell’inclusione, sui confini dell’identità, sulla possibilità di vivere insieme. Il progetto si collega a una visione più ampia dell’Università di Padova, che dal 2019 aderisce al Manifesto dell’Università Inclusiva e oggi sostiene il programma People at Risk, per offrire accoglienza e opportunità a studenti e ricercatori rifugiati. Come ricorda Cristina Basso, prorettrice alle Relazioni Internazionali, "solo il 3% dei rifugiati nel mondo ha accesso all’istruzione superiore: colmare questo divario significa anche difendere il diritto alla conoscenza, ovunque e per chiunque".

In fondo se esistere significa, come suggerisce Edward Said, essere fuori posto, allora l’arte è la lingua di chi non trova casa ma continua ostinatamente a cercarla. In un mondo in cui sempre più persone sono costrette alla fuga, Out of Place ci invita a non distogliere lo sguardo dal dolore, ma a riconoscere in esso una scintilla irriducibile di umanità — quella che spesso si rivela proprio nel limite, nella frattura, nella perdita. È un messaggio che risuona anche altrove, come ci ricorda un’altra mostra aperta in questi giorni a Treviso: la creatività spesso nasce nella marginalità come possibilità di senso. Non solo per rifugiati, migranti ed esuli: per tutti quelli che, almeno per un istante, si sentono fuori posto.

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012