SOCIETÀ
“Fotografo l’amore, non la guerra”: Giles Duley e il valore della resilienza e dell’empatia

Foto di Alessandra Lazzarotto - © Università di Padova
“Mi chiamano fotografo di guerra, ma se osservi il mio lavoro la guerra non c’è. Quello su cui mi concentro è l’amore”. Giles Duley non corrisponde allo stereotipo del reporter indurito dai conflitti. Certo, frequenta da oltre vent’anni le zone di guerra, dove ha documentato gli effetti di carestia, violenze e torture; e sì, nel 2011 ha perso entrambe le gambe e un braccio dopo a causa di un ordigno in Afghanistan. Ma Duley, ospite a Padova per un incontro pubblico tenutosi presso l’Università di Padova, insiste sul fatto che quello che fa va oltre il dolore.
“Ciò che mi lega alle persone che fotografo non è la sofferenza ma la resilienza: un dono che la vita ci offre quando attraversiamo momenti difficili”, spiega. Per lui conta soprattutto quello che è venuto dopo il suo incidente: 46 giorni in terapia intensiva, 37 operazioni, la riabilitazione e il tornare a camminare. “È stato allora che ho ricevuto il dono della resilienza”.
Per Duley il centro del racconto non è la sua storia: “Sono stato ferito facendo quello che avevo scelto, non tutti però hanno una scelta. Due mesi dopo il mio incidente un bambino di sette anni è saltato su una mina mentre andava a scuola, a Kandahar, perdendo una gamba e un braccio. Ricordo che piangevo mentre lo fotografavo. Sono queste le storie che contano davvero, e non voglio che finiscano in ombra”.
Il percorso di Duley va oltre la fotografia: si definisce piuttosto un narratore, uno che cerca l’intimità e il legame con le persone. “Voglio sentire se c’è una relazione tra il fotografo e la persona ritratta – spiega a Il Bo Live –. Una buona immagine deve avere una storia; più che le luci e l’inquadratura contano verità, narrazione, empatia”. Di recente ha trovato una conferma inaspettata del senso del suo lavoro in una fonte improbabile: “In un’intervista Elon Musk ha detto che l’empatia è la causa del declino della civiltà occidentale. Per me è stata come una chiamata alle armi: allora empatia e storie hanno ancora un potere! Se è questo che persone come Musk temono, forse allora sto facendo la cosa giusta”.
Il metodo dell’inglese si fonda sul contatto umano: “Prima di fotografare qualcuno mangio sempre insieme a lui. Cuciniamo, condividiamo un pasto, creiamo fiducia. In questo modo ci sono più ‘soggetti’: diventano amici”. Spesso torna negli stessi luoghi a distanza di anni, documentando con rispetto e pazienza l’evoluzione delle vite delle persone. “La storia non finisce quando ce ne andiamo. Per loro continua, anche se a volte in apparenza nulla sembra cambiare”.
Alla domanda se il mondo stia diventando più violento, si prende un momento. “È cambiata la visibilità. Da bambini guardavamo il telegiornale una volta al giorno; oggi la sofferenza ci arriva ininterrottamente sui social 24 ore su 24. Da una parte è un bene, perché può stimolare consapevolezza, ma rischia anche di sopraffarci. E allora smettiamo di darci da fare”. Non si tratta però di un fatto neutrale ma politico. “Steve Bannon lo chiama flooding the zone: creare così tanto caos e confusione da paralizzare la gente. Per questo credo sia importante concentrarsi innanzitutto su ciò che possiamo fare concretamente, giorno per giorno”.
Dopo tanti anni, Duley sa che il cambiamento è lento, ma in qualche modo inarrestabile. Lo racconta attraverso quella che definisce la sua ‘teoria della casa in fiamme’: “Se cammini per strada e vedi qualcuno urlare da una finestra di un edificio che brucia, la maggior parte delle persone cercherà di aiutare: non si chiederanno se quella persona è bianca o nera, cristiana o musulmana, cittadina o rifugiata. Agiranno, ed è questo che dobbiamo tenere a mente”.
Per questo crede che l’arte, iniziative di sensibilizzazione e i racconti abbiano comunque un valore, anche se in apparenza non smuovono le masse. “Vorrei poter fermare tutte le guerre con una fotografia, ma so che non succederà. Il mio lavoro non cambierà il mondo: magari però potrebbe raggiungere la persona che potrebbe farlo”.
Anche in un pianeta ferito, Giles Duley continua a credere nell’umanità e, in mezzo a tutte le tenebre che ha incontrato, ciò che cerca e documenta non è la disperazione, ma la cura. “In un campo profughi o in una zona di guerra, io trovo l’amore. Una nonna che pettina i capelli alla nipote, una madre che nutre il suo bambino, un padre che insegna a leggere ai figli seduto per terra. È di questo che voglio parlare: dell’umanità nel suo lato migliore”.