SOCIETÀ

Giappone, corsa al riarmo e le strategie di vicinato con la NATO

Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha rilasciato pochi giorni fa, durante una visita in una base aerea a Tokyo, due dichiarazioni notevoli, che avranno certamente un peso nel delicato e complesso puzzle delle alleanze strategiche internazionali, laddove i gesti valgono spesso più delle parole. La prima: «Quello che sta accadendo oggi in Europa potrebbe accadere in Asia orientale domani. Quindi dobbiamo rimanere uniti e fermi, stando insieme e continuando a difendere la libertà e la democrazia». La seconda: «Evidenziamo con preoccupazione la crescente cooperazione militare della Russia con la Cina, anche attraverso operazioni congiunte ed esercitazioni nelle vicinanze del Giappone». Accanto a Stoltenberg, mentre le pronunciava, c’era il primo ministro giapponese Fumio Kishida: di fatto una dichiarazione congiunta. E dal momento che il Giappone non fa parte dell’Alleanza Atlantica, questa sintonia, questa manifesta armonia, non fa che confermare il progetto della Nato (e degli Stati Uniti) di “inglobare” il paese del Sol levante, di trasformarlo da un lato nella “succursale asiatica” dell’Alleanza, e dall’altro nel più concreto e tangibile monito di fronte alle crescenti mire espansionistiche della Cina. Stoltenberg ha inoltre aggiunto: «Giappone e Nato concordano inoltre che la sicurezza nell’area transatlantica e dell’indopacifico è interconnessa. E che la guerra in Ucraina non è una sfida soltanto europea». E per essere ancor più chiaro ha aggiunto: «La Cina non è un nostro avversario, ma bullizza i suoi vicini (ha utilizzato proprio questo termine: “For bullying its neighbours”) e minacciare Taiwan. È necessario che il Giappone e le altre democrazie collaborino con l’Alleanza per difendere l’ordine internazionale». Nota a margine: il recente caso del pallone-spia cinese avvistato e poi abbattuto nello spazio aereo americano (un incidente più di forma che di sostanza), non contribuisce certo a rasserenare il clima tra Washington e Pechino, con il segretario di Stato Antony Blinken che ha rinviato la sua visita a Pechino.

Esercitazioni militari congiunte tra Russia, Cina e Sudafrica

Cosa abbia spinto il capo della Nato a un intervento così esplicito (e anche a un viaggio così esplicito a marcare il territorio: prima di Tokio aveva fatto tappa in Corea del Sud) è senza dubbio l’estrema preoccupazione che attorno alla Russia si stia saldando un’alleanza di potenze, a partire dalla Cina naturalmente, ma anche la Corea del Sud e il Sud Africa (e molti altri stati africani ruotano attorno a quella galassia: Mali, Repubblica Centrafricana, Sudan, Mozambico). Sudafrica che, peraltro, tra pochi giorni ospiterà un’esercitazione navale congiunta alla quale parteciperanno forze inviate da Pechino e da Mosca. Il ministro degli Esteri sudafricano Naledi Pandor ha spento le critiche, confermando che la South African National Defense Force guiderà il programma “Exercise Mosi II” tra il 17 e il 27 febbraio prossimi (in coincidenza con l’anniversario dell’invasione in Ucraina) al largo della costa dell’Oceano Indiano, per condividere “abilità e conoscenze operative”: «Nulla di segreto, è solo un’esercitazione tra amici» - ha commentato Pandor. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha confermato che «le esercitazioni militari sono trasparenti, i tre paesi hanno fornito tutte le informazioni pertinenti». L’agenzia di stampa statale russa TASS ha informato che all’esercitazione prenderà parte una nave da guerra russa armata con “armi da crociera ipersoniche di nuova generazione”. Un'esercitazione simile tra le stesse tre nazioni si è tenuta nell'ottobre 2019 a Città del Capo. I tre paesi fanno parte del “BRICS”, una partnership “tra le economie in via di sviluppo in più rapida crescita” composta da Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa (l’acronimo è dato dalle iniziali di ciascun paese). Una sorta di alleanza che in teoria, molto in teoria, mirerebbe a “promuovere la pace, la sicurezza, lo sviluppo e la cooperazione”. Lo scorso anno Iran e Argentina, oltre a Turchia, Egitto e Arabia Saudita, hanno fatto domanda per entrare a far parte del “club”. Anche se un allargamento porterebbe con sé qualche rischio: «Molti analisti politici temono che l’espansione dell’alleanza possa portare a uno scontro di interessi, poiché i paesi candidati hanno obiettivi e capacità diversi», scriveva due mesi fa la rivista Oriental Review. «Ad esempio, la Turchia è interessata all’adesione ai BRICS a causa del suo desiderio di diventare un intermediario commerciale tra India, Russia e Unione Europea; per l’Arabia Saudita la possibilità di scambi commerciali reciprocamente vantaggiosi con la Cina e l’India e il coordinamento con la Russia nel quadro degli accordi OPEC Plus sono importanti; mentre per l'Egitto potrebbe essere la soluzione al problema alimentare».

Insomma, se da un lato Stati Uniti e Nato stanno tentando di ampliare il più possibile la rete dell’alleanza occidentale, con l’obiettivo di spingersi a rafforzare il “confine” dell’avversa zona d’influenza (coinvolgendo anche l’Australia), dall’altro Cina e Russia non sembrano avere alcuna intenzione di restare a guardare. Il che preoccupa, e molto, la Casa Bianca. Mercoledì scorso lo stesso Stoltenberg, intervenendo alla Keio University di Tokyo, ha anche sostenuto che «la Cina sta investendo sempre più in armi nucleari e missili a lungo raggio senza fornire trasparenza o impegnarsi in un dialogo significativo sul controllo degli armamenti per le armi atomiche, mentre intensifica le minacce contro Taiwan, l’isola autogovernata che rivendica come proprio territorio». Intervenendo a Seoul, il segretario generale della Nato aveva invece rimarcato la «preoccupazione per i test missilistici spericolati e i programmi nucleari della Corea del Nord». Pyongyang ha subito condannato le visite di Stoltenberg in Corea del Sud e Giappone, sostenendo che la Nato stava cercando di “mettere i suoi stivali militari nella regione” e tentando di fare pressione sugli alleati asiatici degli Stati Uniti affinché fornissero armi all’Ucraina. Della vicenda si è occupato anche Global Times, il quotidiano cinese organo del Partito Comunista, che in un editoriale pubblicato la scorsa settimana scrive: «Le parole e le azioni di Stoltenberg in Giappone e Corea del Sud sono molto diverse, indicando che i due paesi svolgono ruoli diversi nel disegno strategico della Nato. A Seoul ha parlato principalmente con la parte sudcoreana, che era l’obiettivo della sua opera di persuasione e d’incitamento, mentre a Tokyo ha parlato con l’intera regione Asia-Pacifico, e le autorità giapponesi sono rimaste complici e co-cospiratori». Pochi giorni prima, dalla stessa fonte era arrivata una minaccia più esplicita: «Se il Giappone continuerà ad agire come pedina degli Stati Uniti nella regione dell’Asia-Pacifico, dovrà guardarsi bene dal diventare esso stesso una vittima degli Stati Uniti o addirittura l’Ucraina dell’Asia orientale».

L’ostacolo dell’articolo 9 della Costituzione giapponese

Da parte sua il Giappone ha già deciso da quale parte schierarsi. Sfidando non pochi malumori interni, ma conquistando il plauso del presidente americano Joe Biden, il primo ministro Kishida ha annunciato il raddoppio del budget militare (fino a 333 miliardi di dollari in 5 anni). E non è un dettaglio per una nazione che, dopo il tragico epilogo della seconda guerra mondiale, con le atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki, aveva deciso di scrivere così nella sua Costituzione, all’articolo 9: “Aspirando sinceramente a una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra quale diritto sovrano della Nazione, e alla minaccia o all’uso della forza quale mezzo per risolvere le controversie internazionali. Per conseguire l’obiettivo proclamato, non saranno mantenute forze di terra, del mare e dell’aria, e nemmeno altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto”. Nel preambolo della Carta costituzionale (che porta la data del 3 novembre 1946) era anche precisato: “Noi, popolo giapponese, deliberiamo che mai più conosceremo gli orrori della guerra per colpa del Governo (…). E respingiamo e revochiamo tutte le costituzioni, le leggi, le ordinanze e i regolamenti in contrasto con quanto qui stabilito». Più volte in passato l’ex premier giapponese, Shinzo Abe, assassinato lo scorso anno in un attentato, aveva già chiesto, senza successo, di rimuovere l’articolo 9.

Il dinamismo militare del Giappone, per definirlo così, non è più un mistero, dal momento che sta costruendo le più grandi navi da guerra del mondo, due cacciatorpedinieri da 20 mila tonnellate. A gennaio il primo ministro Fumio Kishida ha affrontato un viaggio diplomatico in Occidente dai risvolti interessanti: in Francia ha incontrato il presidente Macron, a Roma la prima ministra Meloni (a dicembre l’Italia ha firmato l’accordo di “coalizione internazionale” Global Combat Air Program con Giappone e Regno Unito per la costruzione di un caccia di nuova generazione, più potente dell’F35), a Londra il premier Sunak, poi in Canada il presidente Trudeau e infine, a Washington, Joe Biden. E nel risiko delle alleanze sulle quali Tokyo può e potrà contare, un ruolo decisivo potrebbe essere ricoperto, nell’immediato futuro, anche dall’India. Ma se il “gradimento” all’estero del Giappone è in crescita (le relazioni economiche e commerciali, ancor prima che militari, con i paesi visitati sono sempre più robusti) quello interno è in picchiata: Kishida deve fronteggiare più d’un malumore, anche perché l’incremento del budget militare è diretta conseguenza di un aumento delle tasse (imposte sulle società, sul reddito e sul tabacco nell’anno fiscale 2024). Da un sondaggio condotto alla fine di gennaio emerge che il 60% ritiene “una buona mossa” l’alleanza del Giappone con gli Stati Uniti, ma appena il 22% è favorevole a un aumento delle imposte. Tre giapponesi su 4 ritengono inoltre che il premier avrebbe dovuto sciogliere la Camera dei Rappresentanti (dunque andare a elezioni anticipate) prima dell’approvazione degli aumenti per le spese militari: tesi supportata anche da diversi sostenitori dell’attuale governo. Poi c’è lo scoglio del famoso articolo 9 della Costituzione: se il Giappone vorrà proseguire su questa strada, dovrà necessariamente trovare una soluzione per aggirare l’ostacolo. Kishida ha comunque garantito che il Giappone si atterrà alle regole globali, e che le «nuove capacità militari saranno utilizzate come passi minimi di difesa per proteggere la nazione dagli attacchi missilistici dei suoi nemici».

Semiconduttori e crollo della natalità

Il Giappone appare comunque in una fase di grande trasformazione. Con il primo ministro Fumio Kishida, «un moderato che si sta trasformando in guerriero», come scrive il Washington Times, chiamato ad affrontare anche fondamentali sfide interne. A partire da quella, drammatica, sul calo demografico (meno di 800mila nascite nel 2022, in un paese di 126 milioni di abitanti, con un’aspettativa di vita assai aumentata negli ultimi decenni: uno dei tassi di natalità più bassi al mondo). Numeri che hanno spinto il primo ministro a chiedere il raddoppio della spesa per i programmi statali dell’infanzia e l’istituzione di una nuova agenzia governativa che dovrà proporre soluzioni al problema. E a pronunciare parole gravi: «Siamo sull’orlo del baratro. Il Giappone rischia di non poter continuare a funzionare come società. Dobbiamo focalizzare l’attenzione sulle politiche riguardanti l’infanzia e l’educazione dei figli: è un tema che non può aspettare e non può essere rimandato». Tra le cause del crollo della natalità, l’alto costo della vita del paese, i salari bassi che hanno portato a una drastica riduzione del reddito familiare medio, la mancanza di assistenza all’infanzia nelle città. L’economia del Giappone è sostanzialmente in fase di stallo, appesantita dall’aumento dei prezzi e dal calo dei consumi. Tra le tante sfide che dovrà affrontare merita una menzione la “battaglia dei microchip”, talmente importante da giustificare alleanze che, di fatto, ricalcano in grandi linee quelle militari. Stati Uniti, Taiwan (attuale leader), Giappone (un tempo leader, ora fabbrica soltanto un decimo della produzione mondiale) e Corea del Sud hanno stretto un accordo, chiamato Chip 4 Alliance, con l’obiettivo dichiarato di escludere la Cina dal mercato dei semiconduttori. Inoltre Giappone e Paesi Bassi hanno appena accettato di unirsi agli Stati Uniti per limitare le esportazioni in Cina di apparecchiature indispensabili per la produzione di semiconduttori avanzati. Pechino, com’era prevedibile, non ha gradito.

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