SCIENZA E RICERCA

Il Green Deal europeo e la sfida globale al climate change

Grande eco ha avuto su tutti gli organi di stampa la comunicazione che la Commissione Europea ha presentato al Parlamento e al Consiglio l’11 dicembre, nella quale viene proposta una “iniziale tabella di marcia delle politiche e misure necessarie a raggiungere lo European Green Deal”. Che poi sarebbe un patto “per trasformare l’Unione Europea in una società equa e prospera, con una economia moderna, competitiva ed efficiente nell’uso delle risorse, con emissioni di gas a effetto serra azzerate entro il 2050”. E non basta: mentre si perseguiranno questi obiettivi si dovrà “conservare e migliorare il patrimonio naturale dell’UE, proteggere la salute ed il benessere dei suoi cittadini, assicurando equità ed inclusività” ed ancora “porre attenzione ai settori industriali ed ai lavoratori per i quali la sfida sarà più impegnativa”. 

Tutti propositi ed obiettivi, alcuni di non facile conciliazione, sui quali è difficile non concordare. Non a caso il Green Deal è stato il cemento della laboriosa costruzione dell’accordo sulla nuova Commissione guidata dalla presidente von der Leyen

La comunicazione, tuttavia, è poco più di una interessante analisi della situazione in tutti i settori, dall’agricoltura, all’industria, ai trasporti; e rinvia ai “prossimi mesi” l’emanazione di una serie di provvedimenti legislativi per definire un concreto piano d’azione con obiettivi al 2030 e al 2050, ancora più ambiziosi di quelli indicati sinora dalla commissione uscente. C’è dunque da attendersi nei prossimi mesi un’accesa discussione nel Consiglio Europeo sul fatto che l’asticella delle emissioni zero al 2050 in tutti i settori sia davvero superabile senza danni per l’economia europea e possa quindi essere accettata da tutti i Paesi Membri. 

E poiché è prevedibile che da più parti si leveranno dubbi, è bene sin da ora domandarsi se lo sforzo europeo abbia un senso, al di là del valore politico, posto che oggi le emissioni UE di CO2 rappresentano poco più del 9% del totale mondiale e al 2050 il contributo sarebbe, a policies invariate, intorno al 6%. Come dire, potremmo pure azzerare le emissioni UE, ma se il resto del mondo non farà altrettanto, gli effetti sul cambio climatico saranno pressoché irrilevanti. Perciò, lo sforzo di annullare entro i prossimi 30 anni le emissioni di autovetture, autobus, autotreni, aerei, navi, quelle dell’industria, dell’agricoltura e della generazione elettrica nella sola Unione Europea sarebbe evidentemente privo di senso. Del resto la stessa comunicazione ci ricorda che “le cause del cambio climatico sono globali” e per questo “il Green Deal non potrà essere realizzato se l’Europa sarà la sola ad agire” ma “l’Europa può usare la sua influenza, esperienza e risorse finanziarie per mobilitare altri paesi” e dunque “intende continuare a guidare gli sforzi internazionali contro il cambio climatico”. Tuttavia, poiché non siamo all’anno zero, è legittimo chiedersi quanto efficace sia stata negli ultimi 20 anni la leadership europea nella lotta al cambio climatico.

Infatti, a ben guardare, la nuova comunicazione tanto nuova non è, ma si inserisce nel lungo solco delle politiche energia-clima dell’UE. Anzi alcuni passaggi ricorrono quasi uguali. Già nel 2000 con il primo Programma Europeo per il Cambiamento Climatico e successivamente nel 2003 con il secondo Programma, la Commissione asseriva che “l’Unione Europea è impegnata da tempo a livello internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici e sente il dovere di essere d’esempio con politiche e misure dedicate”. Passati 20 anni, cosa si può dire del buon esempio europeo? Stando ai dati dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, le emissioni di CO2 dovute all’uso di combustibili fossili nell’UE erano 3.7 miliardi di tonnellate nel 2000 ed oggi sono 3.1 miliardi: esse sono pertanto effettivamente diminuite di 0.6 miliardi di tonnellate. Nel resto del mondo, però, nel 2000 erano 19.5 miliardi di tonnellate ed oggi sono cresciute a 30.1 miliardi: un incremento di 10.5 miliardi di tonnellate, quasi 18 volte superiore alla riduzione conseguita in UE; riduzione che dunque non ha avuto di fatto alcun effetto sul clima. 

Per provare a spiegare perché, mentre l’Unione Europea conseguiva una riduzione del 16% delle sue emissioni di CO2, nel resto del mondo esse aumentavano del 54%, molto si potrebbe dire, a cominciare dal fatto che il grosso dell’aumento extraeuropeo viene dalla Cina (6.2 miliardi di tonnellate) e dall’India (1.3 miliardi), paesi in tumultuosa crescita economica, che, proprio per favorirla, non sono - per così dire - andati per il sottile con le fonti di energia. Quanto agli Stati Uniti, pur avendo sempre avuto un approccio a dir poco prudente con il Protocollo di Kyoto (mai ratificato) e con le ben 25 COP (l’ultima appena conclusa a Madrid) della convenzione ONU sui cambiamenti climatici, dal 2000 hanno comunque ridotto le loro emissioni di CO2 del 16%, tanto quanto l’UE, sempre stando ai dati dell’Agenzia Internazionale dell’Energia.  

E allora, ribadito che tutto quanto previsto dal Green Deal è apprezzabile, che sarebbe auspicabile fosse condiviso a livello globale e che tuttavia, alla luce delle passate esperienze, è giusto dubitare dell’efficacia, che fare?

Prima di tutto, prendiamo atto delle conclusioni dei vari rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) dell’ONU secondo i quali il clima cambia prevalentemente per effetto delle emissioni antropiche di gas serra. Ricordiamo, inoltre, che il 75% circa delle emissioni serra è costituito da CO2 (il resto, per il 16% è Metano, un quinto del quale emesso in atmosfera dal settore oil and gas, il 10% sono altri gas a effetto serra). Di tutte le emissioni di CO2, circa il 75% viene dalla combustione di combustibili fossili. Dunque i combustibili fossili (tra combustione ed emissione diretta di metano) sono responsabili del 60% (56% CO2 più 4% Metano) delle emissioni serra. La loro sostituzione con altre fonti, in particolare rinnovabili e nucleare, che non emettono CO2, è pertanto indispensabile, ma da sola non porterà ad emissioni zero, senza interventi sull’industria, lo zootecnia, ecc.

Ma restando al settore dell’energia, visto che fissare obiettivi vincolanti, per quanto ambiziosi, qua e là in qualche Paese del mondo o in tutta l’Unione Europea non avrà alcun effetto sul clima, si può dedurre che la sfida ardua delle riduzioni delle emissioni climalteranti è prima di tutto tecnologica e di accettabilità sociale. Se avremo a disposizione tecnologie energetiche CO2-free economicamente competitive e saremo in grado di creare le condizioni per la loro accettabilità ce la faremo. E questa è una prima osservazione. Del resto, l’esempio degli USA è abbastanza significativo: la riduzione di emissioni di cui si diceva prima è stata conseguita grazie alla sostituzione di carbone con metano domestico estratto con la tecnica innovativa dello shale gas. E le vecchie centrali elettriche a carbone dismesse emettevano più del doppio di CO2 per kWh prodotto, rispetto alle nuove centrali a gas a ciclo combinato. Gli effetti collaterali dell’estrazione dello shale gas sono molto discussi, ma è un fatto che una nuova tecnologia, economicamente competitiva e con minori emissioni di CO2 ha spiazzato la vecchia tecnologia a carbone. 

La seconda osservazione ha a che fare con la persistenza della CO2. Una volta immessa in atmosfera, la CO2 vi rimane molto a lungo (~100 anni); pertanto, per ridurre l’attuale concentrazione (415 parti per milione, contro un valore pre-industriale di 280) serviranno molti decenni, a prescindere da quanto riusciremo a ridurre le emissioni nei prossimi anni; ed il clima, già cambiato oggi, nel frattempo cambierà ulteriormente, con effetti locali ancora più pesanti di quelli che già oggi l’IPCC evidenzia. È quindi urgente adottare importanti misure di adattamento alle conseguenze del nuovo clima (si parla di città resilienti) se non altro perché investimenti locali in adattamento avrebbero immediati benefici locali.

A dire il vero, la comunicazione riconosce che la disponibilità di nuove tecnologie ed innovazioni disruttive sarà cruciale per raggiungere gli obiettivi del Green Deal; inoltre annuncia che la Commissione adotterà una nuova e più ambiziosa strategia europea sull’adattamento al cambio climatico. Rimane tuttavia assolutamente prevalente l’orientamento verso l’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni entro il 2050. 

Ma tornando alle tecnologie: già oggi sono mature una molteplicità di tecnologie CO2-free che consentono l’approvvigionamento energetico in modo economicamente competitivo. Ed ancor più questo accadrà nel prossimo futuro, se investiremo abbastanza per far progredire lungo la scala della maturità tecnologica, altre nuove tecnologie, oggi non ancora competitive o non ancora disponibili, come ad esempio la fusione nucleare. Quindi, in questa fase correttamente definita di transizione energetica, occorre favorire, con le giuste regole (incluso il coinvolgimento della popolazione nei processi autorizzativi) un approccio virtuoso, che, da una parte, punti a conseguire tutti i risultati raggiungibili in modo economicamente sostenibile, sfruttando ed integrando al meglio le tecnologie già mature e, dall’altra, promuova lo sviluppo di nuovi prodotti e processi che allarghino la platea degli interventi economicamente sostenibili. 

Sviluppare tecnologie energetiche CO2-free, in modo che divengano economicamente competitive e disponibili a livello globale è l’unica possibilità per combattere davvero il cambio climatico; ambiziosi obiettivi europei, a 10 o 30 anni, anche quando sono raggiunti  -abbiamo visto - non risolvono il problema. 

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