SOCIETÀ

La guerra dei chip

Mentre resta alta la tensione su Taiwan ci sono campi in cui il conflitto tra Stati Uniti è già deflagrato. Una lotta senza esclusione di colpi in cui si intrecciano geopolitica, ricerca scientifica ed economia e in cui i governi tentano poco a poco di riconquistare una parte dell’influenza persa con la globalizzazione. La politica spinge insomma per il decoupling ma ci sono anche considerazioni economiche da tenere in conto: è davvero conveniente far rientrare in Stati Uniti e Europa produzioni ormai da tempo proficuamente collocate in estremo Oriente e in particolare in Cina, l’odierna ‘ fabbrica del mondo’?

C’è sempre stato in realtà un rapporto privilegiato tra grande capitale e politica, fin dai ‘tempi d’oro’ della prima rivoluzione industriale: “i capitalisti hanno dovuto essere inventati, nutriti e protetti dagli Stati”, annota lo storico Donald Sassoon (L’alba della contemporaneità, Padova University Press 2019, p. 31). Anche in epoche molto più recenti ci sono state guerre commerciali, persino tra alleati, come quella di cui scrive Alessandro Aresu, analista e consigliere scientifico della rivista Limes, nel suo ultimo saggio Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia (Feltrinelli 2022).

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Barbara Paknazar

Il precedente è costituito dalla competizione tra Usa e Giappone, che negli anni ’80 attraverso i suoi giganteschi conglomerati industriali prende in mano il mondo dell’elettronica: dalla progettazione e la fabbricazione di chip, computer e sistemi di telecomunicazioni, al marketing e alla distribuzione, con economie di scala con le quali gli Stati Uniti non riescono a rivaleggiare. Così, quando nel 1986 Fujitsu tenta di acquisire la storica Fairchild, azienda simbolo della Silicon Valley, l’operazione viene bloccata sulla base dell’assunto che determinati settori economici sono essenziali per la sicurezza nazionale. Due anni più tardi il Congresso approva il cosiddetto Exon-Florio Amendment, che dà al Presidente degli Stati Uniti il potere di sospendere o vietare acquisizioni estere di società statunitensi: un pilastro di quella tendenza della politica commerciale americana che Aresu definisce sanzionismo e che trova espressione anche nell’attuale confronto con il dragone.

Lo stato  attuale delle relazioni tra Stati Uniti e Cina è caratterizzato da una profonda tensione – spiega Aresu a Il Bo Live –. Usciti da un periodo in cui l'Interdipendenza economica tra le due potenze era considerata fondamentale, siamo in una fase nella quale la competizione e le considerazioni di sicurezza nazionale sono considerate essenziali. Da questo punto di vista la capacità di controllare alcuni nodi tecnologici, sia per i loro effetti sull'economia e sulla capacità di mercato, sia per le loro relazioni con gli apparati militari e con le capacità militari dei Paesi, è diventata di grande rilievo”.

I tentativi di autosufficienza cinese nei semiconduttori non hanno ancora avuto successo, a differenza di quanto sta accadendo con le batterie e i veicoli elettrici

L’effetto di questa seconda ‘guerra dei semiconduttori’ si articola in un uso sempre più frequente di strumenti governativi (apparati di controllo degli investimenti, agenzie di regolazione) per analizzare e per bloccare transazioni di mercato sgradite. Sotto la lente c’è ancora una volta l’industria high-tech, che è ancora saldamente in mani statunitensi per quanto riguarda progettazione e design mentre la produzione si è spostata ormai da anni sulle coste occidentali del Pacifico, ma con una filiera che per il momento non è ancora sotto il controllo di Pechino: “A oggi i tentativi di autosufficienza cinese non hanno ancora avuto successo – commenta Aresu –. Un esempio contrario è invece quello della filiera delle batterie e dell’auto elettrica, dove invece c'è stata una grande capacità cinese dal punto di vista tecnologico e industriale con la nascita di veri e propri giganti come Catl (Contemporary Amperex Technology), divenuta in meno di dieci anni il maggiore fornitore di batterie a ioni di litio al mondo, o Byd (Build Your Dreams), uno dei maggiori produttori di veicoli elettrici”.

Intanto a occidente si cerca di riportare entro i confini nazionali anche la parte più manifatturiera delle supply chain: il Chips and Science Act, firmato dal presidente Biden nell’estate del 2022, stanzia a questo proposito 280 miliardi di fondi complessivi (oltre 50 dei quali per i semiconduttori), con un’esplicita clausola anticinese: le aziende potranno ricevere fondi pubblici per realizzare strutture produttive negli Stati Uniti solo se firmeranno un accordo col governo con cui si impegnano a non sostenere per dieci anni “l’espansione materiale della capacità manifatturiera di semiconduttori nella Repubblica popolare cinese”. Allo stesso tempo anche legge europea per i semiconduttori, presentata dalla Commissione europea, mira a mobilitare circa 43 miliardi di euro tra risorse pubbliche e private.

Sullo sfondo rimane la questione dalla quale siamo partiti, con Taiwan a simboleggiare e catalizzare le tensioni tra le due superpotenze di questo inizio di inizio di millennio. “Nel breve termine probabilmente quello che vedremo sarà il mantenimento dello status quo, ma in futuro occorrerà non abbassare l’attenzione. Bisogna considerare che negli ultimi tempi, con il Covid e le crescenti tensioni con gli Usa, le comunicazioni si sono fatte molto più difficili e sappiamo meno della Cina e dei suoi processi interni: un tempo un’iniziativa militare da parte cinese sarebbe stata difficile da immaginare, oggi sarebbe comunque irrazionale ma forse va tenuta in qualche modo in conto”. Sperando che non sia questo il terreno su cui ci si contenderà il dominio del XXI secolo.

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