SOCIETÀ

La guerra delle parole in Ucraina

L’hanno definito pazzo, megalomane, bullo, cinico, spregiudicato. Un autocrate abilissimo a surfare sulle onde della paura, occhi di ghiaccio e pallino in mano, ossessionato dal bisogno di dettare le regole del gioco, perfino compiaciuto dal vedere l’effetto che fa. Grazie a Vladimir Putin una nuova edizione della guerra mondiale (nucleare, peraltro) è diventata, nelle ultime settimane, qualcosa di ancora impensabile ma non più impossibile. Grazie a Putin, perché l’unico atto concreto che ha fatto salire a livelli altissimi la tensione mondiale è riconducibile a una sua decisione preliminare: l’aver ammassato, ai confini con l’Ucraina (e in Bielorussia), un numero spropositato di truppe e di armamenti (nell’ordine di 130mila soldati, probabilmente di più, comprese unità mediche e perfino adeguate scorte di sangue). Lui le definisce “esercitazioni”, l’occidente le legge (a ragione) come “minacce”. Va avanti così, da mesi. Il resto, a ben guardare, è nulla: soltanto parole, provocazioni, avvertimenti, sottintesi. Una war of words che si continua a combattere nell’agitazione frenetica delle diplomazie e tra gli affanni dei leader occidentali che sperano d’incidere in qualche modo (senza perdere di vista i propri interessi personali). Ma colpi sparati, almeno finora, zero. A zero anche la diplomazia. Uno stallo prolungato, non per questo meno pericoloso. Perché portare la tensione a un livello stabilmente così alto è un rischio altissimo che potrebbe sfuggire perfino alle intenzioni di chi l’ha innescata. Potrebbe bastare un gesto d’impeto, uno scatto di nervi, un incidente di poco conto (reale o indotto che sia) per provocare una reazione immediata. E allora sì, fermarsi sarebbe assai difficile. 

Così si procede, giorno dopo giorno, in un miscuglio di speranze e di minacce, di aperture e di delusioni. Districarsi in questa babele di parole è tutt’altro che agevole, come non è semplice distinguere non soltanto il vero dal falso, ma anche il verosimile dalla provocazione. I voli cancellati, le ambasciate evacuate come misura “assolutamente necessaria”, la fuga all’estero degli oligarchi ucraini, sono tutte notizie che contribuiscono a far salire la tensione generale. Come gli annunci degli attacchi imminenti (l’ultimo indica la data di oggi, 16 febbraio), ormai ripetuti così tante volte che perfino il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, un ex comico dal sorriso non del tutto spento, li ha commentati con sarcasmo in un video pubblicato su Facebook: «Stiamo calmi! Siamo forti! Ci viene detto che il 16 febbraio sarà il giorno dell’invasione. Lo renderemo il Giorno dell'Unità. Il relativo decreto è già stato firmato. In questo giorno isseremo bandiere nazionali, indosseremo nastri blu e gialli e mostreremo al mondo la nostra unità. Tutti noi vogliamo vivere felici e la felicità ama i forti. Non impareremo mai ad arrenderci».  

Qualche segnale di disgelo

Ironia a parte, sembra prevalere nelle ultime ore la consapevolezza che una de-escalation comporterebbe vantaggi per tutti. O per dirla al contrario: che una guerra di questa portata, se dal piano del verosimile dovesse passare a quello del reale, sarebbe una catastrofe per tutti, perfino per chi alla fine riuscisse a prevalere, con una stima di 50mila vittime civili, 30mila militari e oltre 5 milioni di rifugiati. Scriveva pochi giorni fa il New York Times: «Le immagini satellitari, le comunicazioni tra le forze russe e le immagini dell’equipaggiamento in dotazione ai soldati in movimento mostrano che la Russia ha assemblato tutto ciò di cui avrebbe bisogno per intraprendere quella che secondo i funzionari costituirebbe la più grande operazione militare terrestre in Europa dal 1945».

Resta da capire come uscirne, e a quale prezzo. La Russia ha annunciato che alcune delle sue unità militari, dispiegate a ridosso del confine con l’Ucraina, stanno tornando alla base dopo le programmate esercitazioni. «Abbiamo sempre detto che le truppe torneranno alle loro basi dopo che le esercitazioni saranno terminate. Questo è accaduto anche questa volta», ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Ma si parla di “alcune” unità: il grosso dei mezzi militari resta ancora dispiegato ai confini con l’Ucraina. Sempre il Cremlino aveva definito “isteria” e “assurdità” gli avvertimenti statunitensi di un attacco imminente, sostenendo che Washington stia deliberatamente alimentando il panico e fomentando tensioni per innescare un conflitto per motivi interni (a novembre le elezioni di midterm, con Joe Biden in caduta libera nei sondaggi). La risposta dell’occidente è stata cauta, con le parole del capo della Nato, Jens Stoltenberg: «Arrivano segnali da Mosca che il lavoro della diplomazia dovrebbe proseguire, e questo dà motivo di un cauto ottimismo. Ma finora non abbiamo visto alcun segno di de-escalation sul campo», vale a dire nessuna evidenza che Mosca abbia effettivamente ritirato le truppe dal confine. La mossa del Cremlino (vera, parziale o del tutto fasulla che sia) arriva all’indomani di un surreale incontro, trasmesso dalla tv russa, tra Putin e il ministro degli esteri Sergey Lavrov, nel quale il presidente russo chiede, rilassato e tranquillo: «C’è la possibilità di raggiungere un accordo con l’Occidente, o stanno tentando di trascinarci in un processo di negoziazione senza fine?» E Lavrov risponde: «Abbiamo già detto più di una volta che non permetteremo negoziati infiniti su questioni che richiedono una soluzione oggi. Ma come ministro degli Esteri devo dire che ci sono sempre delle possibilità. E mi sembra che le nostre possibilità siano tutt’altro che esaurite... In questa fase, suggerirei di continuare a costruirle». Un pezzo di teatro, una messinscena perfettamente funzionale agli obiettivi di Mosca. Che non arretrerà d’un passo.

Lo zar pretende. E si copre le spalle

Siamo al punto in cui nessuno si fida di nessuno e ciascuno gioca la sua personalissima partita. Putin vuole assolutamente sottrarre l’Ucraina all’influenza della Nato, sostenendo che l’adesione costituirebbe un pericolo per la sicurezza della Russia. La Nato (che resta un’alleanza “di difesa collettiva”) naturalmente rifiuta qualsiasi interferenza e non consentirà alla Russia un diritto di veto su future affiliazioni. L’Unione Europea è ferma nel condannare le minacce di Putin: il cancelliere tedesco Scholz ha ribadito che «non c’è alcuna giustificazione ragionevole» per la concentrazione militare russa al confine con l’Ucraina e che i paesi occidentali avrebbero imposto «sanzioni di vasta portata ed efficaci» in caso d’invasione. Posizione rafforzata dalla posizione espressa dal ministro degli esteri britannico, Liz Truss: «Non accettiamo l'argomento a somma zero secondo cui migliorare la sicurezza di un paese vuol dire danneggiare la sicurezza di un altro, come sostiene la Russia». Replica del ministro degli esteri russo, Lavrov, affidata alle radio locali: «Se dipende dalla Russia, allora non ci sarà guerra. Non vogliamo guerre. Ma non permetteremo che gli interessi russi vengano brutalmente calpestati e ignorati». Mentre il presidente francese Macron, che non è riuscito ad assumere il ruolo di protagonista che sperava (anche in vista delle “sue” presidenziali di aprile), è costretto a un ruolo da comprimario. Fino allo stesso Putin, che arriva a indossare i panni della vittima: «Non siamo noi che ci muoviamo verso la Nato, ma la Nato che si muove verso di noi». Per poi volare a Pechino, per incontrare Xi Jinping e siglare un patto di sostegno reciproco sull’Ucraina e su Taiwan. Come dire: occhio, alle spalle abbiamo la Cina. Ancora parole, certo. Ma la minaccia non è da poco.

Un equilibrio impervio. Ma assumendo per buona l’ipotesi che nessuno stia realmente soffiando nelle vele della guerra, dove si potrebbe trovare il punto di compromesso? Molti analisti hanno indicato negli ultimi giorni la soluzione di “finlandizzare”l’Ucraina, farne uno stato-cuscinetto (sul modello della neutralità ottenuta della Finlandia durante la Guerra Fredda, sancita in un trattato del 1948 con Mosca che la metteva al riparo da future invasioni). Quindi di fatto bloccando l’adesione dell’Ucraina alla Nato, per togliere a Putin quella sensazione di accerchiamento che lamenta, e che è all’origine dell’attuale crisi. Ma difficilmente Putin accetterà. Perché l’Ucraina è già uno stato-cuscinetto: non fa parte della Nato (e fin quando i suoi confini non saranno stabilizzati l’adesione non ci sarà), non appartiene all’Unione Europea. Come scrive Foreign Policy, autorevole rivista americana di politica internazionale: «Putin non può vivere con un'Ucraina neutrale della porta accanto. Al contrario, vuole subordinarla e metterla sotto la sfera di influenza della Russia, dov’era una volta. Il suo metodo per raggiungere questo obiettivo è l'aggressione e l'intimidazione, che risale all'annessione della Crimea e all'occupazione della regione del Donbass nel 2014. Finora ha raggiunto l’opposto dell’obiettivo prefissato: gli ucraini desiderano sempre più l’integrazione con l'Occidente. Sebbene nell’aprile 2012 solo il 13% degli ucraini vedesse la Nato come la migliore opzione di sicurezza, nel 2021 il sostegno all’adesione alla Nato in Ucraina era del 53%. Questo è ciò che sconvolge Putin: mentre l’Ucraina rimane uno stato neutrale, molti ucraini si stanno spostando oltre l’orbita della Russia. Più Putin fa pressione, più loro guardano all’Occidente e apprezzano la loro sovranità, la democrazia, la libertà di stampa. Avere l’Ucraina come stato cuscinetto non è chiaramente sufficiente per il presidente russo; vuole annullare la sua sovranità, democrazia e istituzioni indipendenti». Come aveva scritto lo stesso Putin, lo scorso anno: «Ucraini e russi sono un solo popolo». Intanto gli Stati Uniti hanno offerto al governo ucraino un prestito da un miliardo di dollari per superare gli effetti dell’attuale crisi economica. Con il presidente Biden che con parole chiare, in un discorso alla Casa Bianca, ha tentato ancora una volta di rassicurare il Cremlino: «Gli Stati Uniti e la Nato non sono una minaccia per la Russia. L’Ucraina non è una minaccia per la Russia. Né gli Stati Uniti né la Nato hanno missili in Ucraina. E non abbiamo piani per piazzarli lì. Non stiamo prendendo di mira il popolo russo. Non cerchiamo di destabilizzare la Russia. Ai cittadini russi dico: voi non siete il nostro nemico».

L’arma del gas e la “quasi guerra” prolungata

Altre strade percorribili: riportare in vita, attuandoli, gli accordi di Kiev, definiti nel 2015 e mai rispettati né da Mosca né da Kiev. Oppure un’accresciuta autonomia dell’Ucraina russofona, il Donbass, nell’ambito di uno Stato federale o confederale. Ma se anche quest’ultima fosse la soluzione, la tregua che ne conseguirebbe sarebbe probabilmente a termine: nel senso che Mosca sarebbe ancor più vicina a Kiev, pronta a riprendere le minacce in qualsiasi momento. E qualsiasi “concessione” a Putin (e al suo modo di agire) costituirebbe un pericoloso precedente, facilmente replicabile in futuro. Perciò la strada della diplomazia resta comunque in salita. Il vero rischio è che una soluzione non arrivi. Che l’attuale stallo possa durare per mesi, con tutto quel che ne consegue, anche a livello di forniture energetiche, anche a livello di prezzi del petrolio, con gli europei che potrebbero pagare un prezzo altissimo il prolungamento di questa “quasi guerra”. Sull’argomento, il pallino in mano ce l’ha sempre Putin. La Germania è legata a triplo filo con le forniture russe (e l’ex cancelliere tedesco Schroeder è stato appena nominato nel consiglio di amministrazione di Gazprom, il colosso energetico russo, controllato dallo stato). E lo stop alla messa in funzione al North Stream 2, il nuovo gasdotto (proprietà di Gazprom) da 11 miliardi di dollari che sul fondo del Mar Baltico, per oltre 1200 km, collega l’ovest della Siberia alla Germania (non è ancora entrato in funzione), è sì una minaccia ma blanda rispetto al danno che il blocco delle forniture di gas potrebbe provocare in Europa. Scrive il New York Times: «Da novembre, la quantità di gas naturale in arrivo in Germania dalla Russia è precipitata, facendo salire i prezzi alle stelle e prosciugando le riserve». La stessa Gazprom, su Twitter, il 5 febbraio scorso, ha scritto: «Fino all'85% del gas iniettato negli impianti di stoccaggio sotterranei del gas in Europa la scorsa estate è già stato ritirato. Gli impianti in Germania e Francia sono già per due terzi vuoti». Nel 2021 le esportazioni di gas russo in Europa hanno raggiunto un livello record. Una dipendenza forse concessa con troppa leggerezza, che potrebbe risultare fatale.

L’impressione dunque è che Putin non sia all’angolo, anzi. Non sta “vincendo”, ma non sembra in difficoltà perché non ha minacce concrete da temere. Non deve difendersi. E non ha fretta. Ha in mano ottime carte, militari ed economiche. Può decidere lui le regole del gioco. Certo, la guerra non è auspicabile, comporterebbe dei rischi enormi anche per la Russia. Ma sa benissimo che, almeno in questa fase, è l’Europa sotto scacco, alla ricerca di una qualche soluzione che possa salvare il salvabile. «È nostro maledetto dovere prevenire una guerra in Europa», ha detto il cancelliere tedesco Scholz. Bisognerà vedere se l’Unione Europea e gli Stati Uniti avranno la forza, soprattutto diplomatica, la pazienza e la fantasia per evitarla.

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