Controlli per il coronavirus alla stazione Termini di Roma. Foto: Contrasto
Pandemia, emozioni e unione sacra. Come ti mobilito gli europei per il virus
“Siamo in guerra”. È la frase più ricorrente nelle retoriche ufficiali e nel linguaggio mediatico in questi giorni in cui la lotta contro la pandemia di COVID-19 sta assumendo i contorni di una crociata. O di una guerra totale. Come nel 1914-18; come nel 1939-45. Ha cominciato in Italia Giuseppe Conte, quando, l’11 marzo, ha annunciato l’inasprimento delle misure di emergenza decise per contrastare l’epidemia. “Tutto il mondo ci guarda”: a capo dell’esecutivo di un Paese normalmente alieno alle chiamate alle armi, il presidente del consiglio ha evocato in rapida successione Napoleone, il senso della battaglia, il rigore e il dovere come fondamento dell’identità civica, la calma e la lucidità del governo impegnato a difendere i cittadini e non da ultimo la nazione come comunità di destino. Un linguaggio e un tono inusuali nella tradizione repubblicana dove, da decenni, il vocabolario patriottico è riservato, quasi con timidezza, ai messaggi alla nazione del presidente della Repubblica.
Ha seguito a ruota la Francia, dove Emmanuel Macron il 12 marzo ha proclamato la mobilitazione di ogni energia nazionale contro il nemico coronavirus e, nemmeno quattro giorni dopo, ha chiamato alle armi i propri compatrioti. “Nous sommes en guerre […] J’appelle tous les Français à s’inscrire dans cette union nationale […]. Nous sommes en guerre, oui. […] Hissons-nous, individuellement et collectivement, à la hauteur du moment”. De Gaulle non avrebbe usato parole troppo diverse. Come ha scritto Le Monde, le sue parole sono state solenni, l’appello all’union sacrée degno delle grandi crisi nazionali.
Nelle stesse ore, in Gran Bretagna, Boris Johnson ha tentato la carta della retorica à la Churchill per giustificare scelte alquanto discutibili rispetto alla portata reale dell’emergenza sanitaria. Anche di fronte alla minaccia del morbo, gli inglesi dimostreranno di essere superiori agli europei e non cederanno al panico “we are [not] banning major public events […] we are not closing schools”. Mantenete la calma, continuate la vostra vita, non ci hanno sconfitto i nazisti, non lo farà nemmeno un virus oggi: mancava poco che aggiungesse “we shall fight on the beaches, we shall fight on the streets…”. Del suo discorso alla nazione, del resto, e delle sue molto coraggiose dichiarazioni corrette, stracciate, puntualizzate e cambiate radicalmente nei giorni successivi, ricorderemo probabilmente solo l’infelice chiosa sul costo stimato in vite umane della politica di non intervento del governo di Sua Maestà: “many more families are going to lose loved ones.”
Morte e paura
Ma di fronte alla nuova sfida del contagio, capi di stato e di governo non sono stati gli unici a fare ricorso insistentemente agli strumenti della cultura di guerra. Nell’arco di pochi giorni (e a volte poche ore) i media di quasi ogni tendenza politica hanno compattamente rispolverato un lessico bellicoso che sembrava definitivamente sepolto da almeno settant’anni. Per incoraggiare la popolazione a compiere i propri sacrifici con senso di responsabilità (se non con entusiasmo) sono stati evocati (a volte con ironia, più spesso no) gli avi immolatisi sui campi di battaglia della Grande Guerra, additati ad esempio alle giovani generazioni. “Vinceremo la battaglia”, ha dichiarato un opinionista popolare come Aldo Cazzullo, “prendendo esempio dai nostri nonni”, mentre La Stampa di Torino ha parlato dell’“ora più buia”. Una chiamata alle armi pedagogica senza paragoni nella cultura italiana novecentesca, dove l’invocazione al dovere e alla disciplina sono state per decenni derubricate come stucchevoli nostalgie da libro Cuore, politicamente scorrette e anche un po’ sospette. Gli aggiornamenti sulla diffusione dell’epidemia sono diventati “bollettini di guerra”. Gli slogan patriottici (o simili) sono fioriti come i tricolori ai balconi – altra abitudine normalmente confinata ai momenti di giubilo sportivo –, e i medici che affrontano (“in prima linea” naturalmente) il COVID-19 sono stati canonizzati come gli eroi della più classica letteratura di battaglia cristiana e cavalleresca: si sacrificano senza pensare alla propria incolumità per difendere la propria comunità. Cioè noi. Un “noi” che celebra i propri difensori attraverso forme apparentemente bizzarre e non sempre serie – come i flash mobdi ringraziamento – ma tutto sommato non tanto diverse dalle cerimonie di riconoscenza collettiva che durante e dopo i conflitti mondiali hanno permesso agli europei di ringraziare i propri campioni.
Il fatto è che la paura (del contagio, della morte) sembra aver occupato lo spazio dell’immaginario. Una novità traumatica in società, come quella europea e particolarmente quella italiana, che dopo il 1945 hanno progressivamente estromesso la guerra e la morte dall’orizzonte della comunicazione. Con maggiore o minore velocità a seconda dei casi nazionali, nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale (e in larga parte a causa della brutalità ingestibile della guerra moderna, dall’olocausto atomico al genocidio) gli europei hanno infatti rimosso il nesso sacrificale che dai tempi della Rivoluzione francese legava il cittadino allo stato.
L’idea che far parte di una comunità significhi anche essere pronti a mobilitarsi per essa, e nel caso rinunciare alla propria vita per il bene collettivo – un’idea su cui si è basata per duecento anni l’”imposta del sangue» della coscrizione obbligatoria – , è stata sostituita progressivamente dalla convinzione che a legare individuo e comunità politica siano fondamentalmente vincoli di benessere materiale. Dal cittadino al consumatore. Ma un consumatore che non ha parole d’ordine e non ha leve morali a cui aggrapparsi in caso di un pericolo che frantuma le sicurezze economiche, disgrega i vincoli sociali e non permette fughe salvifiche in base al reddito.
Uno dei primi segnali del panico dilagante è stata la corsa agli approvvigionamenti. Gli scaffali vuoti dei supermercati e delle farmacie hanno ricordato molto da vicino l’accaparramento tipico delle società colpite dalla guerra, con la scomparsa di alcuni generi o la crescita a dismisura del loro valore secondo una logica tipica da “mercato nero”. Spesso con effetti grotteschi. La carta igienica saccheggiata nei supermercati austriaci o nordamericani (in Canada hanno dovuto varare norme per limitarne l’acquisto) non sarà nobile come il papiro scomparso nel medioevo mediterraneo di cui parlava Henri Pirenne, ma certo è una buona spia della psicosi da olocausto che ha travolto ogni forma di buon senso nel mondo alla notizia della pandemia.
Privazioni e libertà
Già solo questo giustifica l’idea di essere in guerra? Forse no, ma alcune similitudini colpiscono certamente. I provvedimenti emergenziali varati prima di tutto dalla Repubblica italiana, e poi a ruota da altri paesi dell’Unione (soprattutto, per ora, da Francia e Spagna), rappresentano il primo cedimento sistematico, deliberato (e consensuale, trattandosi di liberal-democrazie) sul terreno delle libertà civili dai tempi del secondo conflitto mondiale. Nessuna norma antiterrorismo applicata dal 2001 in avanti aveva intaccato così da vicino e così immediatamente alcuni diritti acquisiti e dati per scontati. La libertà di movimento nel quotidiano, in primo luogo.
In Italia, l’applicazione delle “zone rosse” prima e poi della “zona di sicurezza” nazionale, con l’obbligo di motivare gli spostamenti e di risponderne all’autorità di pubblica sicurezza, ha un precedente illustre nel “passaporto per l’interno”, applicato nel maggio 1915 per controllare (e impedire) gli spostamenti della popolazione civile ancora residente nella “zona di guerra”, all’epoca, più o meno tutto il Nord Est. La libertà di riunione: gli assembramenti sono stati proibiti dai decreti della presidenza del Consiglio, esattamente come lo erano dalle leggi eccezionali varate all’inizio del primo conflitto mondiale.
Naturalmente, esistono anche profonde differenze. Nessuno oggi in Italia (o nel resto d’Europa) pensa seriamente di limitare la libertà di stampa o censurare le notizie riguardanti la pandemia.Nel 1914 e nel 1939, la prima vittima delle mobilitazioni per la guerra fu sempre l’informazione, e i mass media vennero arruolati per sostenere le politiche governative, a costo di strepitose bugie. I divieti imposti dal governo centrale sono dichiaratamente temporanei, imposti per esigenze di salute pubblica e non per la volontà di manipolare il consenso. E nessun governo ritiene necessario sospendere le garanzie democratiche. Non ci sarà una legislazione eccezionale che sottrae il cittadino ai tribunali ordinari, le libere elezioni potranno essere rinviate di settimane o mesi ma non cancellate, e i leader politici in carica possono farsi forte della popolarità che gode ogni commander-in-chief(anche autoproclamato) nelle situazioni di crisi, ma sanno che l’elettorato chiederà loro conto di ogni azione e in tempi brevi. Il che non toglie che il parallelo con le società che nel Novecento si ritrovarono costrette a mobilitarsi per un conflitto di massa e totale sia per certi versi sorprendente. E non sempre in negativo.