SOCIETÀ

L’immigrazione in Svezia: modello o fallimento?

Secondo i dati Eurostat, tra il 2010 e il 2016 negli Stati membri dell’Unione Europea sono state registrate circa 4,1 milioni di nuove richieste di asilo delle quali oltre 1,2 milioni nel solo 2016. Il 60,8% di queste sono state accolte.

All’interno degli Stati membri però la richiesta di asilo non è omogenea. Soprattutto dal 2017, dopo la chiusura della rotta balcanica e dell’accordo sui rifugiati UE-Turchia siglato nel marzo 2016, il numero di persone in arrivo irregolarmente nell’UE ha iniziato a diminuire significativamente, in particolar modo negli stati del nord Europa.

Austria, Bulgaria, Danimarca, Finlandia, Germania, Ungheria, Olanda, Polonia e Svezia infatti hanno visto calare le richieste di asilo, cosa che invece non è accaduta in Francia, Grecia, Italia e Spagna. In particolare in Francia nel 2017 ci sono state 100.412 richieste di asilo, con un incremento del 17% rispetto al 2016.

È proprio in uno degli Stati membri più a nord che vogliamo concentrare le nostre attenzioni. La Svezia domenica 9 settembre ha portato i suoi cittadini al voto, cittadini che hanno segnato una svolta da tenere in considerazione. Mentre dal punto di vista della governabilità queste elezioni hanno portato ad uno stallo, essendo le due coalizioni distanziate solamente di uno 0,3% (il centro-sinistra ha preso il 40,6%, il centro-destra il 40,3%), a gioire sono stati i Democratici Svedesi.

Avremo un’incredibile influenza su ciò che accadrà in Svezia nelle prossime settimane Jimmie Akesson, leader dei Democratici Svedesi

Il partito di estrema destra ha conquistato il 17,6% dei voti ed è stato considerato il vero vincitore delle elezioni. Jimmie Akesson, leader dei Democratici Svedesi, a risultato raggiunto ha dichiarato: “Avremo un’incredibile influenza su ciò che accadrà in Svezia nelle prossime settimane”. La formazione del nuovo governo quindi, dovrà inevitabilmente passare per il partito fondato nel 1988 che racchiude in se le varie forze dell’estrema destra svedese, con l’obiettivo di contrastare l’immigrazione, l’islamizzazione e favorire la difesa della cultura svedese.

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Per comprendere a pieno l’ascesa del partito di estrema destra bisogna però analizzare la situazione dell’immigrazione in Svezia. Uno studio dell’Institute for Employment Research, pubblicato sul sito del Parlamento Europeo, ha messo in relazione le politiche di integrazione lavorativa in tre diversi paesi: Germania, Austria e Svezia.

La Svezia, all’interno dell’Unione Europea è da anni uno degli stati cardine per quanto riguarda l’immigrazione. Nel 2015 era lo Stato membro dell'UE con il tasso di naturalizzazione più elevato (6,7 acquisizioni per 100 stranieri residenti), e, soprattutto, con il numero di rifugiati maggiore per ogni mille abitanti (23,4 rifugiati per mille abitanti, al secondo posto c’è Malta con 18,3, al terzo la Norvegia con 11,4 mentre l’Italia ne ha 2,4, secondo i dati UNHCR riferiti al 2016).

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Solamente nel 2015 in Svezia sono state registrate più di 160mila richieste di asilo, un numero ben distante dal milione e 200mila richieste arrivate in Germania, paese però che ha 82,67 milioni di abitanti, mentre la Svezia ne registra 9,9 milioni.

Un numero questo che ha scosso l’opinione pubblica svedese e che, dal gennaio 2016, ha fatto cambiare le politiche migratorie del paese. Dal 2016 infatti, il governo svedese ha introdotto un permesso temporaneo di 3 anni (che si riduce a 13 mesi per chi ha uno status di rifugiato sussidiario), limitando anche il ricongiungimento familiare.

Questa legge sarebbe dovuta restare attiva fino al 2018, condizionale d’obbligo visto il risultato delle recenti elezioni politiche. Il risultato di tali politiche più restrittive, è stato quindi un drastico calo delle richieste di asilo, che sono passate dalle 162mila del 2015 alle 28mila del 2016.

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Le politiche di integrazione della Svezia

Le politiche di integrazione della Svezia però sono sempre state orientate anche all’inserimento lavorativo e si possono classificare in tre diversi periodi: il primo che va dal 1990 al 1994 che ha visto un afflusso di rifugiati provenienti principalmente dall’ex Jugoslavia (circa 100mila persone originarie perlopiù della Bosnia); il secondo, che va dal 1994 al 2006 con al governo i social democratici, chiamato anche il periodo dell’Integrationpolitik, ovvero della politica di integrazione socialdemocratica ed il terzo, che va dal 2006 al 2014, che ha dato una sterzata alle politiche di inserimento lavorativo (Vent'anni di immigrazione in Svezia: flussi migratori e politiche di integrazione - Veronica Riniolo, università degli Studi di Milano-Bicocca).

Andando indietro nella storia recente della Svezia si può notare come l’anno che segnò la svolta nell’occupazione degli stranieri fu il 1970. Prima di quell’anno infatti gli stranieri avevano un tasso di occupazione più alto, ed in particolare le donne straniere partecipavano alla forza lavoro con un tasso più alto delle donne svedesi. Da quel momento in poi il divario tra reddito e occupazione tra migranti e nativi svedesi ha iniziato ad aumentare fino ad arrivare, nel 1977 ad un tasso di disoccupazione degli stranieri maggiore del doppio rispetto ai nativi svedesi.

La prima fase: decentralizzazione

Il divario è aumentato anche durante la prima fase di cui abbiamo accennato prima, cioè quella delle migrazioni dall’area balcanica verso la Svezia. I motivi di questo gap si possono riscontrare in due diversi fattori: il primo è il periodo storico, in quanto la Svezia era nel bel mezzo di una grande recessione economica con il tasso di disoccupazione più alto dal 1930, il secondo è che la crisi economica portò ad un cambiamento nella struttura economica del paese, con conseguente minore richiesta di manodopera per occupazioni a bassa qualifica, cioè quelle che erano perlopiù coperte da migranti. Durante questa fase, come riportato nella ricerca della dott.ssa Veronica Rinolo dell’università degli Studi di Milano-Bicocca, “le politiche di integrazione vennero fortemente decentralizzate, con responsabilità affidate perlopiù a livello locale. Tale politica - continua la dott.ssa Rinolo -, nota con il nome di Hela Sverige strategin, è stata, insieme ad altri fattori, una delle cause del gap occupazionale e dei fenomeni di segregazione abitativa che ancora oggi rappresentano uno dei principali problemi nei processi di inserimento dei migranti”.

L’Integrationpolitik socialdemocratico

La fase denominata Integrationpolitik, quindi quella che va dal 2006 al 2014, coincise con la salita al potere dei socialdemocratici. La svolta avvenne nel 1997, quando venne introdotto un atto governativo denominato Sweden, the future and diversity – from immigration policy to integration policy (1997/98: 16). Alla base di ciò c’era l’idea di un’integrazione basata su uguali diritti, responsabilità e opportunità per tutti, indipendentemente dall’origine. Durante questo periodo inoltre, l’ingresso della Svezia nell’Unione Europea, avvenuto nel 1995, portò soprattutto un’immigrazione in entrata per motivi lavorativi. Questi migranti europei furono per la maggior parte polacchi. La situazione mondiale però, con  l’inizio degli anni Duemila, mutò completamente con flussi di migrazione che partivano per la maggior parte dal Medio Oriente e da paesi come Iraq e Afghanistan.

La terza fase: la centralizzazione

Nella terza fase, quindi quella post 2006, si iniziarono ad intravedere le prime problematiche dovute alle precedenti direttive. Sempre secondo lo studio della dott.ssa Rinolo, “alcuni Comuni, decisero di non assegnare sussidi sociali o di non accogliere immigrati, adducendo spesso come motivo la mancanza di alloggi; altri scelsero invece di destinare risorse ai nuovi arrivati ma con differenze organizzative tra un Comune e l’altro molto consistenti che hanno peraltro influenzato la distribuzione geografica attuale degli immigrati”.

Anche i tempi medi di inserimento nel mercato del lavoro furono sotto la lente d’ingrandimento. Secondo alcuni dati del 2009 infatti, in media il 15% degli uomini otteneva un lavoro dopo un anno di permanenza nel paese; il 35% dopo tre anni e il 50% dopo cinque anni. Alla luce di queste problematiche, nel 2010, il governo del Partito Moderato emanò una legge sull’inserimento dei rifugiati. I punti cardine di questa direttiva cercarono di contrastare le precedenti problematiche centralizzando nuovamente le politiche di integrazione, la cui responsabilità passò dai comuni all’Arbetsförmedlingen (cioè il servizio pubblico di collocamento) a cui venne affidato il compito di coordinare i programmi di ingresso dei nuovi arrivati. Tra questi programmi fu prevista anche la figura di un coach, con l’obiettivo di ridurre i tempi d’ingresso nel mercato del lavoro.

La Svezia quindi, già dagli anni ‘70 è stata considerata un punto fermo in merito al pluralismo, con delle politiche migratorie atte a dare una reale possibilità di integrazione ai migranti. Politiche però che negli ultimi anni, dal 2016 in poi, sono state riviste. Nello stesso tempo il partito di estrema destra è in continua crescita nei sondaggi, segnale catalizzatore di un malcontento del popolo svedese. Il “modello svedese” quindi sta mettendo in luce alcune profonde crepe, dalla ghetizzazione in alcuni sobborghi, dovuta alla decentralizzazione, all’alto tasso di disoccupazione giovanile.

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