CULTURA

Inquietare e abbattere argini: “Il serpente” di Stig Dagerman

Qualcuno lo ha definito “una cometa” nella letteratura del Novecento. Il suo passaggio sulla terra è stato breve, ma il suo lascito – letterario e filosofico – continua ancora oggi ad avere una potenza comunicativa che pochi scritti possono vantare.

Parliamo di Stig Dagerman, autore svedese di assoluto talento, la cui vita, a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, fu molto tragica e altrettanto intensa: costellata da tragedie fin dall’infanzia, fu coronata da una fama precoce e da un impegno politico costante, elementi che tuttavia non riuscirono a sopire la disperazione di un uomo segnato da una spiccatissima sensibilità, incapace di arrendersi al nostro incolmabile “bisogno di consolazione”.

Dagerman si affaccia sulla scena letteraria a soli ventidue anni, quando è poco più che un ragazzo: l’opera, Il serpente, comparsa nel 1945, è accolta entusiasticamente dalla critica, consacrando la carriera del giovane scrittore. Il libro è stato recentemente pubblicato in italiano dalla casa editrice Iperborea con la traduzione di Fulvio Ferrari, docente di Filologia germanica all’università di Trento, con cui abbiamo dialogato.

L'intervista completa a Fulvio Ferrari. Montaggio di Barbara Paknazar

Accolta dai critici dell’epoca come romanzo, l’opera si presenta in realtà come un insieme di capitoli che, a prima vista, sembrano costituire racconti quasi autonomi l’uno dall’altro. Dagerman gioca con il lettore, chiedendogli di lasciarsi andare all’andamento della narrazione ma, al tempo stesso, esigendo un’attenzione costante e una partecipazione attiva da parte di chi scorre le pagine del volume. A poco a poco, districandosi tra i vari personaggi e tra le numerose storie dentro le storie, inserite l’una nell’altra in un raffinato gioco di “scatole cinesi”, emerge con sempre maggiore chiarezza l’intima unità della trama, e si coglie la complessità dell’intreccio narrativo: come evidenzia il professor Ferrari, «a un certo punto della lettura diviene evidente come un racconto risponda all’altro», come vi sia, tra le parti della narrazione, un dialogo interno che richiede una «vigilanza attiva da parte del lettore».

Incredibile è anche la maestria del Dagerman ventiduenne nel piegare il linguaggio alle proprie necessità comunicative. In un’unica opera si condensano, infatti, stili e registri molto diversi: dalle vette poetiche di alcune descrizioni paesaggistiche, che ricordano uno stile quasi pittorico, e dal sapiente uso delle metafore, spesso portatrici di importanti simbolismi, alla colloquialità quasi volgare di alcuni dialoghi, che riflettono lo squallore, la meschinità, persino la violenza dei personaggi che li pronunciano.

Il Serpente è un’opera che racchiude in sé non solo un grande sperimentalismo formale – tratto che caratterizza tutta la produzione letteraria dell’autore –, ma che contiene anche, in nuce, alcuni dei motivi che attraversano l’intera riflessione filosofica di Dagerman: dal tema della paura e dell’angoscia, sentimenti che segnano la condizione esistenziale dell’uomo, alla critica sferzante all’organizzazione gerarchica della società, che stringe l’uomo in un “cerchio di ferro”. Tale critica, in particolare, riflette le convinzioni politiche dello scrittore, che fin da giovanissimo, seguendo le orme del padre, abbraccia gli ideali dell’anarchismo libertario, reinterpretandolo secondo i suoi propri schemi, al di là di ogni tensione messianica e con una vena di lucido pessimismo circa l’irrealizzabilità di una società giusta.

«Dagerman – spiega Ferrari – è un anarchico sui generis: è consapevole del fatto che il suo ideale è irrealizzabile, e questa consapevolezza si rafforza soprattutto dopo la sconfitta dei libertari nel corso della guerra spagnola (1936-39). Tuttavia ritiene che sia eticamente giusto, nonché inevitabile, continuare a comportarsi coerentemente con le proprie convinzioni. È per questo che il suo impegno politico non viene mai meno: egli lo esercita, fino alla morte, soprattutto sotto forma di contributi giornalistici per il giornale anarchico svedese per il quale lavora fin dall’adolescenza e con la militanza per il pacifismo e contro i totalitarismi di ogni parte politica».

Cos’è allora il tempo, se non una consolazione perché niente d’umano può essere perenne? Stig Dagerman, “Il nostro bisogno di consolazione”

Al di là della riflessione sulle sorti politiche dell’Europa – dimensione verso la quale il suo pensiero è già proiettato, precorrendo i tempi della Storia –, lo scrittore si interroga continuamente sulla condizione umana: si tratta di un filo conduttore che torna tanto nella sua produzione letteraria quanto in quella saggistica, dominata da un consapevole pessimismo. L’uomo, infatti, non può sfuggire, per quanto si trinceri dietro una costante ricerca di sicurezza, a una paura strisciante – proprio come il serpente che, nell’opera d’esordio, incarna questo sentimento – che nasce dalla consapevolezza della morte, dell’intrinseca finitudine dell’esistenza: “Certo, non potrò mai liberarmi dal pensiero che la morte segue i miei passi, e tanto meno negare la sua realtà”, scrive Dagerman in Il nostro bisogno di consolazione (1952). “Ma posso ridurre la minaccia fino ad annullarla non ancorando la mia vita a punti d’appoggio tanto precari come il tempo e la fama” (p. 21). E ancora: “Cos’è allora il tempo, se non una consolazione perché niente d’umano può essere perenne?” (p. 14).

«La paura su cui Dagerman ci spinge a riflettere – spiega Fulvio Ferrari – non è solamente legata al contesto storico nel quale egli vive: la paura e l’angoscia sono, secondo l’autore, esperienze inscindibili dall’esperienza umana. Per quanto possiamo impegnarci per migliorare la nostra condizione, finanche realizzando l’utopia di una società autenticamente giusta, non riusciremo mai a sopprimere questi sentimenti. È proprio l’universalità delle considerazioni di Dagerman sulla condizione umana a sancire l’attualità e il successo, ancora oggi, dei suoi scritti: con le sue parole, lo scrittore svedese parla a ognuno di noi, al di là delle contingenze storiche particolari».

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