SOCIETÀ

Le isole, laboratorio per cambiamenti climatici antichi e moderni

Charles Darwin sbarcò fisicamente almeno su quindici isole e arcipelaghi durante il viaggio a bordo del Beagle (27 dicembre 1831 - 2 ottobre 1836). Come noto, la nave era stata costruita come un brigantino con dieci cannoni, fu poi trasformata prima in unità di ricognizione e, dopo un primo complicato viaggio (1825-1830), riadattata come un vero e proprio vascello d’esplorazione con notevole maggiore manovrabilità e, per l’epoca, con un discreto equipaggiamento tecnico scientifico (fra l’altro 22 cronometri e una specie di cinque barometri). Poteva avvicinarsi alle rade e talora attraccare in luoghi disabitati, ricchi e poveri solo di specie vegetali e (altre) specie animali. Si avvicinò, attraccò su terre costiere disabitate e su isole deserte, sconosciute ai sapiens. E le isole, in particolare quelle vulcaniche (in genere più distanti dalla terraferma), ebbero una parte importante nella formazione della visione darwiniana sull’origine delle specie.

Durante i successivi decenni Darwin, ritirato in campagna, continuò a riflettere lungamente sulle condizioni biologiche insulari, riesaminò uccelli e piante prelevati sulle isole (perlopiù le Galapagos), sperimentò un poco l’isolamento in miniatura (ovvero lo spostarsi quando si è circondati da acqua e non si vola né si naviga), confrontò dati e opinioni con amici e colleghi scienziati per meglio comprendere l’evoluzione adattativa delle specie da antenati comuni e le eventuali speciazioni in situazioni d’isolamento.

Ebbe spinta propulsiva una parte significativa della biologia evoluzionistica. Darwin fu aiutato da analisi e riflessioni di John Gould e Joseph Dalton Hooker (fra gli altri) e pose alle menti sapienti le opportune domande su come si arriva oltremare: prima delle navi si poteva sia “navigare” casualmente, essere trasportati da correnti, venti e uccelli, o da oggetti galleggianti, sia camminare quando lo consentiva l’abbassamento o l’innalzamento ciclici del livello del mare, che connette o isola terre un tempo separate o adiacenti. Il più giovane Alfred Russel Wallace girava, rifletteva e scriveva in parallelo, concentrandosi ancor di più e specificamente sulla biologia insulare. Un profondissimo stretto canale a est del Borneo e di Bali ha preso addirittura il suo nome, the Wallace Line, una barriera marina insormontabile perché non camminabile nemmeno con il più basso mare possibile, linea faunistica immaginaria fra Asia e Oceania.

Le isole hanno costituito il laboratorio biologico per tanti scienziati (e per varie scienze); interessante dunque che un giovane biogeografo insulare olandese faccia ora il punto sulla materia: Sietze Norder, Il mondo in miniatura. La vita sulla Terra raccontata attraverso le isole, traduzione di Marco Cavallo, Add Torino 2022 (orig. 2021), pag. 219 euro 18. Ovviamente, tutto è questione innanzitutto di grandezze e piccolezze. In tutto il mondo vi sono oggi appena una settantina di isole che misurano più di diecimila chilometri quadrati, solo due nel Mediterraneo, ovvero Sicilia e Sardegna (Cipro, Corsica, Creta sono un po’ più piccole). Nel mondo delle isole costituiscono l’eccezione, quelle piccole sono moltissime e quelle grandi pochissime. Qualunque sia la grandezza, la maggior parte non si trova ai tropici, ma nell’emisfero settentrionale (Mediterraneo compreso). La distinzione essenziale è fra continentali, perché poggiano sulle croste dei continenti (perlopiù si sono separate dalla terraferma solo da qualche migliaio di anni, quando il livello del mare si è alzato dopo la fine dell’ultimo periodo glaciale) e oceaniche, perché distano centinaia di chilometri dalla terraferma (perlopiù sono vulcaniche, cime di giganteschi vulcani che per milioni di anni si sono variabilmente innalzati dal fondo degli oceani). Entrambe sono dinamiche e “mobili”, emerse o scomparse (alcune da parecchio) nel corso dell’evoluzione.

Quelle di media e minore grandezza sono come microcosmi, versioni in miniatura del nostro mondo, e costituiscono un sistema di dimensioni circoscritte grazie al quale diventano più comprensibili le attuali sfide mondiali, come la crisi della biodiversità (giornata mondiale il 22 maggio) e i cambiamenti climatici (nel maggio 2022 un anticipato caldo estivo in Europa). Sulle isole le dinamiche ambientali che avvengono nel pianeta si trovano sotto la lente d’ingrandimento e studiarle è un primo passo per comprendere meglio il mondo. In ogni isola su cui sono giunti gli esseri umani (non solo sapiens, in vari modi) molto è cambiato, da parte nostra soprattutto con l’agricoltura, soprattutto dopo Colombo e lo scambio macaraibico (da Macaronesia e Caraibi, le due regioni insulari che costituivano gli anelli di congiunzione), soprattutto con le emissioni di gas serra climalteranti, e in ognuna con caratteri peculiari. I nessi chiave della biogeografia insulare (isolamento-immigrazione, superficie-estinzione) sono radicalmente cambiati a causa dell’intervento umano (perdita di habitat, sfruttamento eccessivo, modifica delle interazioni tra le specie), un processo enorme e accelerato in epoca contemporanea.

Il record mondiale di colonizzazione precoce da parte degli esseri umani spetta alle isole che oggi fanno parte dell’Indonesia. I primi Homo che hanno attraversato la linea di Wallace appartenevano a erectus, oltre ottocento mila anni fa, via mare (circa venti chilometri per Flores, circa quaranta per Sulawesi); molto tempo dopo sono arrivati anche i sapiens (e talora incrociarono altre specie umane), all’inizio probabilmente per caso (lì le isole emerse erano sempre tante), poi volutamente (quando si riesce a cominciare crescono esperienza e curiosità), arrivando in Australia oltre cinquantamila anni fa; comunque decine di migliaia di anni prima che si navigasse nel Mediterraneo (qui la vera svolta si ebbe dopo la fine dell’ultima glaciazione, con il Neolitico e il lento prevalere della stanzialità agricola, seppur testimonianze numerose di presenza umana si trovano da trentamila). Intraprendere traversate lunghe richiedeva una serie di elementi pratici: qualcosa che restasse a galla, qualcosa per direzionarlo, acqua e cibo a sufficienza per il viaggio.

Le prime colonizzazioni intenzionali di isole nel lontano bacino oceanico Pacifico, realizzate da Homo sapiens a partire da circa sessantacinquemila anni fa, segnano un punto di svolta nello sviluppo cognitivo, sociale e tecnologico dell’intera nostra specie. Lì e altrove, raggiungere un’isola è un conto, mantenervi una comunità un altro. La trasformazione antropica degli ecosistemi insulari è quindi avvenuta relativamente tardi rispetto ai cambiamenti stratificati sulla terraferma. Sugli ecosistemi insulari l’arrivo degli esseri umani può essere individuato in modo abbastanza chiaro e, soprattutto, l’intera storia dei rapporti uomo sapiente-contesto naturale è concentrata in un arco di tempo che va da alcuni secoli a qualche millennio. A causa dell’enorme aumento dei trasporti, l’oceano non rappresenta più un ostacolo per molte specie. Abbiamo trasformato quasi tutti gli ecosistemi insulari in aree (anche) agricole in cui vengono coltivate esattamente le stesse piante. Ciò potrebbe fare delle isole modelli ideali per stabilire il ruolo degli esseri umani nel plasmare le dinamiche della biodiversità rispetto ai cambiamenti avvenuti prima della loro (nostra) comparsa.

Sietze Norder (1987) si è appassionato allo studio delle isole durante la specializzazione in geologia e geografia sociale; per approfondirne la conoscenza scientifica ne ha visitate e studiate molte per lunghi periodi negli ultimi quindici anni. Presto affetto dalla nota insulomania (ovvero dall’irresistibile attrazione per le isole, che regala un’inspiegabile ebbrezza, forse innata forse acquisita), è divenuto uno scienziato, in particolare un biogeografo insulare. Fin dall’inizio del suo interessante volume si mostra consapevole dell’imprecisione del titolo (peraltro poco attraente): l’ampia disarmonia conferma che gli ecosistemi insulari non sono semplici versioni in miniatura di quello globale e di quelli sulla terraferma. Se una specie animale diventa nana (nanismo insulare) o gigante (gigantismo insulare) dipende tanto dalle caratteristiche dell’isola quanto dalla presenza, o dall’assenza, di altre specie. Così, da ciascuna isola si possono trarre utili globali indicazioni e sperimentare forse utili scelte. I loro confini ben definiti consentono interventi che su scala mondiale sarebbero impossibili.

La biodiversità è ripartita in modo assai diseguale sulla superficie terrestre (più o meno coperta da acque) e si manifesta attraverso sia geni e specie sia ecosistemi e interazioni (di specie ed ecosistemi) nei diversi spazi del pianeta, aerei terrestri acquei. Negli ecosistemi insulari (per definizione meno interagenti di quelli terrestri contigui) il numero di specie per chilometro quadrato è in genere inferiore a quello della terraferma, ma le specie ospitate spesso non si trovano da nessun’altra parte: in un lungo periodo storicamente determinato sono pertanto endemiche (fra cui pare due antiche specie del genere Homo, floresiensis in Indonesia, luzonensis nelle Filippine). La superficie di tutte le isole del mondo, sommate insieme, rappresenta circa il 7% di quella terrestre, a sua volta ora circa il 29% di quella globale. Eppure, le isole ospitano comunque gran parte delle specie del mondo, per esempio il 19% degli uccelli e il 17% delle piante vivono solo lì, sono endemismi insulari, con un numero molto elevato di individui di una singola specie (compensazione di densità).

La crisi della biodiversità ha in suo culmine sulle isole: almeno il 60% delle specie estinte nel mondo erano specie insulari; il 40% delle specie la cui esistenza è in pericolo vive sulle isole. E ciò vale in parte anche per le espressioni culturali umane di Homo sapiens sulle isole. Nessun gruppo della nostra specie è ormai endemico, noi siamo tutti meticci. Eppure le isole ospitano una parte eccezionalmente grande della diversità culturale sotto forma di lingue e religioni umane: delle quasi diecimila lingue conosciute, oltre un quarto è esistita o esiste solo lì; di tutte le lingue scomparse, l’11% era parlato su un’isola; un quarto delle lingue che sono sul punto d’estinguersi è costituito da lingue parlate su isole; circa un quarto delle settemila lingua ora vive al mondo viene parlato in Oceania; su tre quarti di queste isole si parla una sola lingua. Proteggere la biodiversità sulle isole non è una responsabilità esclusiva dei loro abitanti, sapiens e meticci come noi.

Il volume di Norder è diviso in tre parti. Nella prima (La bellezza dei modelli) l’autore sottolinea la diversità culturale e biologica delle isole e cerca di verificarne l’origine, illustrando anche come Darwin, Hooker, Wallace e poi MacArthur-Wilson (fra il 1963 e il 1967), tramite le isole, abbiano contribuito a farci capire meglio la nascita e la diffusione della vita sulla Terra. Nella seconda parte (Diari di viaggio) ripercorre i principali percorsi (diacronici) dei primi uomini che hanno messo piede su diverse isole (di distanti continenti e bacini oceanici) e ne hanno trasformato l’ecosistema, soprattutto facendo migrare con sé fra ecosistemi (prima separati da insormontabili barriere) specie vegetali e animali, esotiche o aliene. Nella terza parte (La Terra come arcipelago) si concentra, infine, sui rapporti tra gli esseri umani e la natura sulle isole, motivatamente convinto che la crisi della biodiversità necessiti di specifica attenzione insulare, le isole come ispirazione. Pochi ma opportuni grafici e tabelle. Assente una bibliografia accurata, non bene ma sommariamente sostituita dalle note finali definite “fonti”. Nell’indice di nomi e luoghi s’evidenzia il comprensibile minore interesse per il Mediterraneo.

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