SOCIETÀ

Israele, congelata la riforma giudiziaria della discordia

L’unica certezza è che la partita non è chiusa, che non ci sono ancora vincitori. Il futuro d’Israele resta appeso a una somma d’incognite, sull’orlo di un baratro scavato deliberatamente da Benjamin Netanyahu e dai suoi partner di governo dell’ultradestra, fermamente decisi, chi per ideologia, chi per interesse personale, a smantellare lo stato democratico, a sottomettere il potere giudiziario, ad accentrare l’autorità nelle mani della maggioranza del Parlamento israeliano, la Knesset. Lunedì scorso il premier, evidentemente preoccupato dalla forza e dal clamore della protesta popolare che da mesi continua a dilagare e a dilaniare il paese, oltre che dalle pressioni internazionali (in primis degli Stati Uniti), ha deciso di “congelare” la tanto contestata riforma giudiziaria che avrebbe azzerato i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). «Ho deciso di sospendere il voto sulla seconda e terza lettura della legge in questa sessione della Knesset, al fine di cercare di raggiungere un accordo. Non sono pronto a spaccare il paese a metà. Quando c’è l’opportunità di evitare la guerra civile attraverso il dialogo, io, come primo ministro, mi prendo una pausa per il dialogo». Parole da leggere in controluce: ha parlato di pausa, non di sospensione. Evoca il dialogo, ma l’unica voce ammessa è la sua. Nessun cenno di comprensione, di avvicinamento verso le ragioni di chi protesta. Anzi, ha ribadito che «la riforma comunque va fatta». Non è una resa, non è un passo indietro. Netanyahu ha soltanto preso tempo. Nonostante l’appello, drammatico, inusuale per toni e contenuti, lanciato dal Presidente israeliano Isaac Herzog: «Mi rivolgo al primo ministro, ai membri del governo e ai membri della coalizione: le emozioni sono difficili e dolorose. Una profonda ansia sta inghiottendo la gente. La sicurezza, l’economia, la società: tutto è minacciato. Per il bene dell’unità del popolo di Israele, per amore della responsabilità a cui siamo obbligati, vi invito a interrompere immediatamente il processo legislativo della riforma». I primi negoziati tra governo e opposizione sono stati avviati ieri, 28 marzo: il primo round, breve, s’è concluso senza alcun cenno di accordo.

Una “milizia” in regalo all’estrema destra

Netanyahu, che ha risposto quasi dieci ore dopo l’appello del Presidente, ha sì “concesso” la sospensione, ma a un prezzo potenzialmente altissimo: ha offerto in cambio al suo alleato più riottoso, Itamar Ben-Gvir, attuale ministro della Sicurezza Nazionale, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, che aveva minacciato di far cadere il governo, il controllo della Guardia Nazionale, un’unità di élite all’interno della Polizia di Frontiera, istituita nel 2021 per contrastare la resistenza palestinese durante l’operazione Guardian of the Walls, formata da circa 900 soldati. La notizia è tutt’altro che marginale e ha già scatenato proteste feroci. A partire dall’Associazione per i diritti civili in Israele (ACRI): «La Guardia Nazionale è una milizia armata privata che risponderà direttamente a Ben-Gvir. Si tratta di un’unità di polizia destinata innanzitutto ad agire in città miste, in primo luogo contro la popolazione araba. Tale potere nelle mani di Ben-Gvir equivale a una sicura violazione dei diritti degli arabi. Avanzare una tale proposta gli consentirà anche di usare questa milizia contro le proteste e i manifestanti. Si tratta di una nuova e pericolosa appendice al colpo di Stato a cui stiamo assistendo. Come se non bastasse agire contro il sistema giudiziario, ora assistiamo a misure operative per sottrarre le autorità alla polizia e trasformarle nelle Guardie rivoluzionarie di Ben-Gvir». Anche Moshe Karadi, ex commissario generale della polizia israeliana, ha detto che il leader dell’estrema destra ha ottenuto il comando di una milizia privata per le sue esigenze politiche: «Sta smantellando la democrazia israeliana, e trasformando Israele in una dittatura». Nel 2007 Itamar Ben-Gvir era stato condannato per incitamento al razzismo (aveva sostenuto la necessità di sterminare i palestinesi) e per aver dato sostegno a un’organizzazione terroristica. Fino a pochi anni fa mostrava con orgoglio, nel salotto della sua casa, una fotografia di Baruch Goldstein, il suprematista ebreo che nel 1994 uccise 29 musulmani palestinesi in una moschea a Hebron. Ben-Gvir, che nei giorni scorsi aveva duellato con Netanyahu, minacciando di far cadere il governo se il premier avesse ceduto alle pressioni, lunedì scorso si è limitato a commentare con un tweet al sapore di minaccia: «La destra ha smesso di sedersi in disparte e rimanere in silenzio».

Benjamin Netanyahu, che in Israele chiamano “King Bibi”, il leader più longevo nella storia d’Israele, sei volte primo ministro, leader del Likud, abilissimo “manovratore politico”, tanto prudente quanto cinico e scaltro, rincorso da quattro procedimenti giudiziari che potrebbero mettere la parola fine sulla sua carriera politica, questa volta appare davvero in difficoltà. E non tanto per la portata delle proteste, mai così estese e radicate, quanto perché non è più nella condizione di poter decidere da solo. Netanyahu è diventato il terminale di richieste opposte e di pressioni feroci. Da una parte ha i partiti radicali dell’ultradestra che gli hanno consentito, lo scorso dicembre, di formare un governo con l’obiettivo primario di varare una riforma giudiziaria che lo “assolvesse” da tutti i peccati del passato (le accuse a suo carico vanno dalla corruzione alla frode). Una questione di vita o di morte (politica). E ora che è in difficoltà, l’estrema destra gli presenta il conto: la minaccia di far cadere il governo, e dunque ritirare la riforma che assoggetterebbe i giudici al potere politico, e dunque lasciarlo ad affrontare i processi senza lo scudo della carica di primo ministro, per Netanyahu non è un’opzione praticabile. Perciò è disposto a cedere: a Ben-Gvir che vuole scatenare la “caccia all’arabo”, all’altro alleato Bezalel Smotrich, leader del Religious Zionist Party, attuale ministro delle Finanze, capace di dichiarare, pochi giorni fa: «non esiste una nazione palestinese, non c’è storia palestinese». E Netanyahu non ha esitato a licenziare, con un gesto plateale, il ministro della Difesa Yoav Gallant che aveva osato avanzare dubbi sull’opportunità della riforma. Concederà ancora: non può più fermarsi.

Rabbia e scioperi

Dall’altro deve fare i conti con la rabbia della società israeliana (solo il 17% sostiene la riforma, dice un sondaggio), che vede concretizzarsi lo spettro di un’erosione progressiva e sistematica della democrazia a dispetto da una “distanza” dai partiti, da anni incapaci di garantire una stabilità politica: dal presidente Herzog ai partiti di opposizione, dai militari dell’esercito agli agenti del Mossad (il servizio segreto), dai piloti da combattimento d’élite ai riservisti dell’esercito che si sono rifiutati di presentarsi in servizio in segno di protesta. Fino al più grande sindacato israeliano, l’Histadrut, che dopo una prima fase di “osservazione” ha deciso di schierarsi apertamente minacciando il blocco dei trasporti, degli aeroporti, dei porti, delle scuole, delle aziende, delle banche, degli ospedali: «È necessario paralizzare il Paese, c'è un limite a quanto puoi stare a guardare», ha detto Arnon Bar-David, segretario generale dell’Histadrut (lo sciopero generale è stato poi revocato all’annuncio della sospensione della riforma da parte di Netanyahu). Fino alle pressioni internazionali, con gli Stati Uniti in prima fila, che da oltre un mese continuano a lanciare segnali, a dirsi “estremamente preoccupati” per la piega che gli eventi stanno prendendo (anche in Cisgiordania), a chiedere di trovare un compromesso. Ieri s’era anche sparsa la voce di un viaggio lampo di Netanyahu a Washington, notizia smentita dallo stesso Biden, che ha escluso inviti: «Israele non può continuare su questa strada». Oggi, alla Casa Bianca, il premier israeliano non è persona gradita. Netanyahu, sprezzante, ha replicato: «Israele è un paese sovrano che prende le sue decisioni per volontà del suo popolo e non sulla base di pressioni dall'estero, anche dai migliori amici». Mai le relazioni tra i due paesi erano arrivate a un simile punto di tensione.

Perciò King Bibi stavolta sembra finito all’angolo: perché trovare un compromesso questa volta, su queste basi, non è possibile. Per risolvere, con qualche possibilità di successo i suoi problemi personali, deve obbedire ai desideri crescenti di protagonismo dell’ultradestra, con tutto quel che ne consegue (con l’escalation dei raid dei coloni israeliani contro i palestinesi in Cisgiordania). La società israeliana (civile e militare) ha necessità opposte: la difesa degli equilibri democratici. E gli Stati Uniti tutto vogliono tranne un aumento della fragilità israeliana in un’area, il Medio Oriente, dove hanno ancora enormi interessi (e comunque Biden, che è alla vigilia delle presidenziali del 2024, non ha finora mai messo in discussione i miliardi di dollari in aiuti “per la sicurezza” che gli Usa forniscono ogni anno a Israele). Tutto sta a capire chi prevarrà in questo triplo tiro alla fune tra l’estrema destra, la società civile israeliana e la Casa Bianca. La prima ipotesi sembra, oggi, la più credibile: perché Bibi Netanyahu è disposto a tutto pur di salvarsi la pelle. Il rinvio della riforma sulla giustizia nasce anche da un banale calcolo: difficilmente, contando la quota crescente di dissidenti interni al Likud, il testo sarebbe stato approvato alla Knesset. Meglio un rinvio che una bocciatura. Il suo piano, nel breve termine, potrebbe essere: sopire in qualche modo la rabbia pubblica, radunare i suoi colleghi del Likud, convincere i più ostili e rilanciare la stessa legislazione tra poche settimane, all’inizio di maggio, alla prossima riunione della Knesset dopo la Pasqua ebraica. Un rischio di proporzioni incalcolabili, per la tenuta interna e internazionale di Israele. Bisogna vedere se al premier sarà consentito spingere una nazione intera verso il burrone. Se qualcuno, prima, lo fermerà.

Verso il capolinea

La strada, per Netanyahu, appare però assai in salita. «La credibilità politica del governo è chiaramente compromessa», scrive Pierre Haski su Internazionale. «Il primo ministro non è un uomo che arretra facilmente, ma in questo caso si era spinto chiaramente troppo oltre, prima di tutto alleandosi con forze di estrema destra provenienti dalle frange più radicali dello scacchiere politico, e in secondo luogo cercando di alterare l’equilibrio su cui ha vissuto lo stato ebraico fin dalla sua fondazione nel 1948. I suoi progetti minacciavano di cambiare la natura del paese in senso illiberale. La sua coalizione perderebbe la maggioranza se oggi si tornasse a votare». Secondo il Jerusalem Post, che ha pubblicato un editoriale titolato “Il falso accordo”, nulla cambierà nel prossimo mese: «È improbabile che i negoziati riescano a porre fine alla crisi attuale ed è improbabile che la Guardia Nazionale diventi direttamente subordinata a Ben-Gvir» - scrive il quotidiano. «Il concetto di un’unità armata direttamente responsabile nei confronti di un politico è estremamente improbabile, e probabilmente illegale, con le possibilità che questo si realizzi molto basse. Quello che è successo lunedì, in altre parole, è che Netanyahu ha promesso a Ben-Gvir qualcosa che quest’ultimo probabilmente non riceverà, mentre Ben-Gvir ha consentito a Netanyahu di avviare negoziati che probabilmente non avranno successo. Perché? Ben-Gvir incassa una vittoria politica e, cosa più importante, Netanyahu può mantenere in vita il suo governo per un altro mese». The Times of Israel gioca invece con la “doppia personalità” del premier, definendolo “dr. Bibi & mr. Netanyahu”: «Nessuno sa davvero cosa c'è nel cuore del premier. Per tre lunghi mesi ha insistito sul fatto che ha “entrambe le mani sul volante” di questo governo, che ne è responsabile e ha il pieno controllo della situazione. È lo stesso Netanyahu che domenica ha licenziato il ministro della Difesa Yoav Gallant, che ha sistematicamente sventrato la democrazia interna e le istituzioni del Likud e che ora non tollera alcun disaccordo nei ranghi del partito. Tutto è ancora possibile, nessuno sa bene dove andranno a finire i pezzi. Ma non importa chi vincerà la gara: il danno causato dagli ultimi tre mesi di follia e arroganza non sarà rapidamente riparato».

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012