CULTURA

Ivy: una dicotomia irrimediabile tra essere e apparire

Molte delle recensioni di Ivy partono dall'incipit, il che sarebbe un buon incentivo a non fare altrettanto. Poi però bisogna anche chiedersi perché: è frutto di una buona campagna di marketing su Instagram e di un brief che prevedeva queste modalità e che poi si è diffuso a macchia d'olio tra chi ne ha scritto? La verità, invece, è che la cinoamericana Susie Yang per l'inizio del suo libro ha pensato a una frase chiave, che permettesse di andare dritti al punto in un romanzo che altrimenti avrebbe rischiato di risultare dispersivo: "Ivy Lin era una ladra, ma a vederla non si sarebbe detto". La dicotomia tra quello che Ivy è e quello che Ivy sembra agli altri è il filo conduttore di un esordio preciso al millimetro: basterebbe una frase di troppo per rendere sconclusionata tutta la storia, ma questa frase non arriva mai, come quando senti che Lucio Battisti sta per tirare una stecca, è proprio lì lì, ma alla fine non lo fa (ed è questa la sua grandezza, dell'interprete come del romanzo).

Ivy di Susie Yang, uscito quest'anno per Neri Pozza, non ha un genere. Dalla trama potrebbe sembrare un giallo, ma anche un romanzo di formazione oppure, ancora, lo studio di un personaggio, uno di quegli esercizi che ti fanno fare ai corsi di scrittura creativa quando devi decidere cosa ordinerà il tuo protagonista al bar, anche se poi, nel corso della storia, al bar non ci andrà mai. Non è che spaziare tra i generi sia una novità, in letteratura, ma se andiamo a cercare dei romanzi che lo fanno in maniera efficace rischiamo di rimanere molto delusi. La storia, di per sé, si riassume facilmente: Ivy Lin è una ragazza cinese emigrata in America quando era bambina, dopo aver passato i primi cinque anni di vita in Cina con la nonna Meifeng, perché i genitori erano già negli Stati Uniti.

Nelle prime pagine del libro veniamo a scoprire cosa implica vivere in un conflitto culturale quasi perenne, e ci chiediamo con un pizzico di fastidio se Yang intenda parlarne ancora a lungo, perché 368 pagine sarebbero un po' troppe. Ma poi il romanzo scarta di netto, ti stupisce e ti prende fino all'ultima pagina. Il conflitto culturale è solo la molla che fa partire tutto il meccanismo narrativo: Ivy non è semplicemente in fuga da una tradizione che le sta stretta, ma vuole fuggire da se stessa. La protagonista prova vergogna per ogni azione che non rispetti il rigido codice morale che si è auto imposta, un codice morale che comunque non riesce a rispettare, a partire da quando va a rubare nei supermercati prendendo esempio dalla nonna che le ha insegnato a cavarsela in ogni situazione, anche quando questo implica usare la candida nipote per far quadrare il bilancio domestico. E Ivy ha imparato: è un camaleonte che riesce ad adattarsi in ogni contesto per perseguire i suoi obiettivi, che sono dei grandi classici: soldi, successo e amore.

Ma chi se ne fregava dell'anima, di quella creatura volubile e cosi difficile da accontentare? Susie Yang

È proprio l'amore quello che rischia di portarla al disastro, e qui potremmo precipitare in un altro genere ancora, quello del romanzo rosa (ma, di nuovo, rimaniamo in bilico senza perdere l'equilibrio): fin da piccola Ivy si convince che Gideon Speyer, il ricco rampollo di una famiglia aristocratica, potrebbe soddisfare quelli che per lei sono diventati autentici bisogni, cioè essere stimata dagli altri nonostante le sue origini, vivere nel lusso e ricevere le attenzioni di tutti, in primis del fidanzato; così lo insegue, con la sensazione di non essere mai abbastanza per lui e per i suoi freddissimi parenti, fino ad averlo in pugno per scoprire che si tratta solo di un mucchietto di sabbia: Gideon Speyer non conosce realmente la sua fidanzata, non sa che è una ladra e un'impostora, ma le ha semplicemente appiccicato addosso un suo desiderio, con la complicità della stessa Ivy che non chiede di meglio che adeguarsi alle aspettative altrui.

Il lavoro certosino di auto annientamento che la protagonista mette in atto viene ostacolato da Roux, un ragazzo rumeno che era molto amico di Ivy quando erano bambini, ma che poi lei aveva allontanato, un po' per le pressioni dei genitori e un po' perché non lo riteneva degno di lei. Roux la conosce, sa com'è fatta, e la ama per quello che è. Con lui Ivy non ha bisogno di recitare un copione, di fingere e nemmeno di rubare, perché Roux nel frattempo è diventato molto ricco, ma gli manca il nome degli Speyer. E ciò che per un'altra donna sarebbe più che sufficiente, per Ivy diventa invece un ostacolo per la sua realizzazione a lungo termine, e con la testardaggine con cui costruisce pezzo per pezzo una vita che non è la sua la protagonista comincia a pensare a come rimediare al fastidioso inconveniente, anche quando questo stesso inconveniente seduce quel lato di lei che lotta ancora per emergere, nonostante l'ostruzionismo costante.

Il conflitto sociale dell'inizio si trasforma nel corso del romanzo in un conflitto interiore, sviluppato e affrontato da Ivy fuori dai binari non solo della logica ma anche della narrativa classica: il lettore non sa se stare dalla sua parte, se sperare che riesca a ottenere ciò che vuole, autodistruggendosi, o augurarsi che i suoi piani vadano in fumo, perché possa rimanere intatto qualcosa nonostante gli errori disseminati lungo il cammino. Ma lei sarà mai d'accordo con il lettore?

Se Ivy è stato definito "l'esordio dell'anno" non è un caso: in questo libro troviamo delle tematiche molto classiche affrontate però con un piglio fresco, a tratti quasi ironico, che difficilmente si riscontra in altri autori esordienti. La commistione di generi è ben gestita, e nonostante un ritmo non velocissimo la suspence diventa quasi subito palpabile, il che ha probabilmente spinto Shonda Rhimes a scegliere questo libro per farne una serie tv; del resto tra i vari generi tra cui oscilla il romanzo, sicuramente c'è il thriller, per quel desiderio di girare pagina che si impossessa del lettore anche quando è tardi. Per i lui, ma forse anche per Ivy.

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