CULTURA

J'Accuse, il grande cinema oltre le polemiche

Prima del film in concorso, ne è stato proiettato un altro. Prima dell'affare Dreyfus, al Lido, si è consumato l'affare Polanski. Ora, qualsiasi cosa accadrà al termine di questa 76esima edizione, una cosa è certa: J'Accuse (L'ufficiale e la spia), il film che il regista 86enne ha presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, è innegabilmente bellissimo: è un'opera solida, colta, sofisticata, curata in ogni dettaglio. Racconta fatti reali, si muove tra storia vera e thriller cinematografico riuscendo a tenere agganciato lo spettatore per più di due ore, senza cedere mai. E questo al netto delle polemiche che ne hanno preceduto la proiezione di venerdì scorso, quelle che hanno animato il festival a poche ore dal suo inizio, con la presidente di giuria Lucrecia Martel che dichiara di non riuscire a separare l'opera dall'uomo (il passato di Polanski è noto e segnato, alla fine degli anni Settanta, da una condanna per stupro di cui ancora si parla moltissimo) e di non aver alcuna intenzione di applaudirlo. Una dichiarazione seguita dalla reazione dei produttori (il film è una coproduzione Francia/Italia), intenzionati inizialmente a ritirare il film dalla competizione, e infine dalla pace ritrovata. Oggi il caso è chiuso ma qualcosa, al Lido, è rimasto nell'aria e, dunque, non resta che attendere. Il festival è giunto al giro di boa, i film da vedere sono ancora tanti, nulla è deciso ma resta il dubbio: ci si chiede ovviamente quanto peserà tutto questo sull'esito finale, perché J'Accuse è un film da Leone (in senso assoluto, senza volerlo paragonare alle altre opere in concorso). Quello che resta addosso, dopo la visione, è un senso di appagamento, di profonda soddisfazione. Magie del grande cinema.

"Il film è basato sull’affaire Dreyfus, argomento cui penso da molti anni - ha spiegato lo stesso Polanski - In questo scandalo di vaste proporzioni, forse il più clamoroso del diciannovesimo secolo, si intrecciano l’errore giudiziario, il fallimento della giustizia e l’antisemitismo. Il caso Dreyfus divise la Francia per dodici anni, causando una vera e propria sollevazione in tutto il mondo, e rimane ancora oggi un simbolo dell’iniquità di cui sono capaci le autorità politiche, nel nome degli interessi nazionali". Un caso di ingiustizia, un film che trasforma una storia di fine Ottocento in uno specchio rivelatore del sentimento del proprio narratore che da anni si sente perseguitato (ma, ovviamente, lo supera, sganciandosi dalle vicende personali e presentandosi come puro cinema): "Was this film like a catharsis for you?", gli chiede Pascal Bruckner nell'intervista inserita nel materiale stampa del film, "No, I don’t work like that. My work is not therapy. However, I must admit that I am familiar with many of the workings of the apparatus of persecution shown in the film, and that has clearly inspired me", risponde Polanski. Un sentimento ribadito, durante la conferenza stampa della Mostra, da Emmanuelle Seigner, da trent'anni moglie di Polanski (anniversario festeggiato proprio al Lido ma a distanza, perché Polanski in laguna non c'era): "Questo sentimento di persecuzione è comprensibile, basta guardare la sua vita...".

A questo film, tratto dal libro di Robert Harris, Polanski ha lavorato per molti anni, scrivendo dapprima la sceneggiatura in inglese ma scegliendo infine il francese, in accordo con il produttore Alain Goldman. J'Accuse prende il titolo dal famoso editoriale scritto in forma di lettera aperta da Émile Zola, pubblicato su L'Aurore e indirizzato al Presidente della Repubblica francese, con lo scopo di denunciare i persecutori di Alfred Dreyfus, e racconta con assoluta precisione fatti realmente accaduti, persone realmente esistite, affidando redini e punto di vista a Georges Picquart (interpretato magistralmente da Jean Dujardin), artefice della salvezza del capitano ebreo Alfred Dreyfus (Louis Garrel), accusato e condannato per un tradimento mai compiuto. La storia è nota, ma certamente non nei dettagli: si tratta di un caso complesso che scosse la Francia di fine Ottocento ma poco conosciuto persino dagli attori del film, i quali, in conferenza stampa, hanno dichiarato di essere entrati dentro la storia grazie alla guida del regista "sciamano" (così lo definisce Dujardin), di essersi affidati, di aver iniziato a conoscere la vicenda studiando la sceneggiatura e di esserne stati, infine, totalmente assorbiti. "Avevo ricordi scolastici del caso Dreyfus, non avevo le idee chiare e non conoscevo i dettagli - ha spiegato Dujardin - Ho iniziato dalla sceneggiatura, che ho letto e riletto. La storia è senza dubbio la star di questo film". Eccola, dunque, in sintesi: il capitano Alfred Dreyfus, giovane ufficiale dell’esercito francese viene accusato di essere un informatore dei tedeschi, dopo la sentenza del dicembre 1894, il 5 gennaio 1895 viene degradato e condannato alla deportazione a vita nell’Isola del Diavolo nell’Oceano Atlantico, al largo delle coste della Guyana francese. Tra i testimoni della sua umiliazione c’è Georges Picquart, promosso a capo dell’unità di controspionaggio che lo ha accusato. Quando però Picquart scopre che le informazioni riservate continuano a essere passate ai tedeschi comincia a credere all'innocenza di Dreyfus e, piano piano, scopre un sistema di inganni e corruzione che coinvolge numerose personalità di spicco e potere. Sarà proprio Picquart a cambiare il destino di Dreyfus, a salvargli infine la vita, ma solo dopo molti anni e superando incredibili resistenze e minacce. Dreyfus viene riabilitato definitivamente solo nel 1906.

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