Dopo 3 anni di preventivi, proroghe, lavori (e una pandemia) ha appena riaperto il più grande museo ebraico d’Europa. Non è un caso che si trovi nel cuore di Berlino, ma il perché è meno scontato di quanto si possa credere: narrare una parte fondamentale degli ultimi 1.700 anni del popolo tedesco.
Ma il museo ebraico non dovrebbe raccontare piuttosto il popolo ebraico o quanto meno la ricchezza della sua cultura? Senza dubbio. L’identità e la storia ebraica innervano ogni spazio, angolo o corridoio spezzato dell’immensa struttura progettata da Daniel Libeskind. Oltre all’esposizione permanente che occupa l’ampio seminterrato disteso su tre assi e i due piani ininterrotti della lunga serpentina che costituisce l’edificio principale, vi si trova ancora posto per più di un’esposizione ad opera di artisti della comunità ebraica. Non mancano nemmeno grandi strutture architettoniche dal tremendo impatto emotivo dedicate esclusivamente alla riflessione personale su quello che è stata la storia di quella comunità: si va così dal Giardino dell’Esilio alla Torre dell’Olocausto. Eppure, l’ambizione di rappresentare pienamente la cultura ebraica risulterebbe manchevole e inconcludente anche per il più grande museo d’Europa. Stiamo parlando di un gruppo etnoreligioso plurimillenario diffusosi in tutto il mondo, il quale – come si può apprendere sin dai primi passi nell’esposizione – per sua stessa vocazione religiosa e culturale non vive attorno a una dottrina statica di certezze, bensì reinterpreta costantemente le proprie radici in maniera comunitaria.
L’esposizione permanente del Jüdisches Museum Berlin non ha di queste pretese e mira invece a mostrare una compenetrazione, conflittuale ma profonda, che ha marcato la costituzione culturale e sociale della Germania attraverso i secoli. È il riconoscimento di come una comunità con una propria identità forte, quella ebraica, sia stata, e sia ancora, qualcosa di più di un fastidioso sassolino nella scarpa, al contrario sia parte integrante di una costruzione identitaria più vasta e complessa.
Da questo punto di vista il museo ebraico di Berlino del 2020 rimane fedele alle proprie origini. Era il 24 gennaio 1933 quando, sotto la direzione di Karl Schwarz (1885-1962), venne inaugurato per la prima volta nel Scheunenviertel, il quartiere ebraico della città, un museo la cui collezione di opere e manufatti voleva mostrare il contribuito delle comunità ebraica alla ricchezza della Germania. Amara ironia, 6 giorni più tardi Adolf Hitler sarebbe stato nominato cancelliere, precipitando quella comunità nell’inferno che tutti conosciamo.
Il supporto informativo accanto al primo memento che si incontra oggi nel museo – un abito da sposa emigrato insieme alla sua proprietaria dopo la Notte dei Cristalli – dichiara subito che la collezione attuale, in effetti, è strettamente legata alla catastrofe dell’olocausto. Le sale che espongono poi il tracollo dalla fine della Repubblica di Weimar al dopoguerra lasciano spiazzati già solo per l’ampiezza foderata di date e avvenimenti. Ciononostante, il baricentro del museo non ruota attorno alle strumentalizzazioni e agli orrori del genocidio perpetrato dai nazisti, – per questi, se capitate a Berlino, ci sono due visite strazianti quanto raccomandate alla Topografia del Terrore e al Memoriale del Campo di Concentramento di Sachsenhausen – quanto piuttosto rilegge quelle atrocità nell’arco più ampio della storia del popolo ebraico tedesco: dalle persecuzioni religiose ai grandi personaggi della scienza e della politica, dal sentimento cupo dell’arte pittorica tra gli anni venti e trenta, alla tradizione canora millenaria della spiritualità ebraica, al riconoscimento della professione rabbinica per le donne.
In questo senso, l’azione culturale promossa dal JMB riesce ad andare anche oltre il monito, comunque vero, di Primo Levi: “Tutti coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo.” Alle origini della Germania ebraica, quella che gli abitanti dei primi insediamenti del III secolo chiamavano Ashkenas, non vi sono solo pregiudizi e scontri di stampo religioso o razzista, ma anche una miriade di note e volti conosciuti, innovazione tecnologica, emancipazione progressista, incontri al di là della marginalizzazione. Un passato che vale la pena conoscere e anche rivivere. È l’offerta di questa profonda autoriflessione, dove le mistificazioni più crudeli rimbalzano sulle narrazioni epocali dell’identità di gruppi e nazioni, che riesce ad avvicinare empaticamente i visitatori alla comprensione della pluralità del mondo ebraico in Germania. Vi si ritrova così anche una comprensione tridimensionale, troppo spesso smussata, del significato che ha avuto l’automutilazione del popolo tedesco durante il Terzo Reich.
Il nuovo palcoscenico del JBM è oggi una catena di costellazioni, ognuna delle quali potrebbe costituire il nucleo di un’esposizione a sé stante. A questo proposito bisogna riconoscere il merito di Hetty Berg, nuova direttrice del museo, e del suo team di lavoro che hanno saputo coniugare la realtà frastagliata della Germania ebraica con l’impatto visivo e simbolico dell’opera decostruzionista di Libeskind, dove ogni angolo vuoto o forma incompiuta spinge a misurarsi con il peso degli avvenimenti. Ma soprattutto, hanno poi saputo proiettare quella realtà nel presente. L’attenzione e lo spazio dedicato alla “questione ebraica” nel passato recente e nel mondo odierno costituiscono probabilmente la svolta più innovativa e coraggiosa del nuovo disegno del museo.
Nell’ultima parte dell’esposizione ci si ritrova faccia a faccia con centinaia di registrazioni, volti e voci, non solo dei noti rappresentati del dibattito corrente, ma di cittadini che in un modo o nell’altro hanno vissuto o vivono ancora sulla propria pelle tutti gli aspetti della questione. Chi non può dimenticare quanto ha vissuto nei Lager e chi con un sorriso infantile preferisce Hanukkah, ma apprezza anche il Natale. Non si tratta semplicemente di ricordare il passato, è la possibilità di confrontarsi con i temi ancora attuali, anche i più scomodi. Dal sionismo, alla questione palestinese, ai gruppi per i quali la storia delle persecuzioni si sovrappone alla marginalizzazione recondita, come è per la comunità Lgbtiq* ebraica. Il coraggio di tentare un simile approccio è sorretto in maniera molto efficace dall’intero cammino attraverso l’esposizione, cosicché più che indulgere sulla diatriba, alla fine si rimane con tante suggestioni e domande aperte nella testa e, magari, anche con un po’ di spirito critico in più per affrontarle.
Dei molti sforzi con cui si è cercato e si cerca ancora di apprendere dagli errori del passato, questo è sicuramente uno dei più riusciti. Una linea irregolare e articolata che, invece di attorcigliarsi sulla banalità del male, si dispiega tra le molte curve tortuose del passato per spingerci a ripensare quello che credevamo di sapere del mondo in cui viviamo.