SCIENZA E RICERCA

Kurt Gödel, genio secondo Einstein

A chiusa della biografia romanzata del grande matematico austriaco Kurt Gödel (La dea delle piccole vittorie di Yannick Grannec, Longanesi 2014) l’autrice dedica al padre una storiella e scrive:

Gödel, Groucho Marx e Heisenberg sono insieme al bar.

Heisenberg dice: “ Anche se è molto improbabile, mi chiedo se per caso non siamo finiti in una barzelletta”. Gödel dice: “ Se fossimo fuori dalla barzelletta, lo sapremmo, ma poiché ci siamo dentro, non abbiamo modo di determinare se siamo o non siamo in una barzelletta”. E Groucho Marx risponde: “Certo che è una barzelletta, ma voi la raccontate male!”.

Al di là della freddura (“da matematici o da fisici” si potrebbe chiosare), quello che accadde nel pensiero scientifico nella prima metà del Novecento fu una vera e propria rivoluzione in grado di minare le certezze e la fiducia quasi cieca che all’epoca si "voleva" nutrire nei confronti delle scienze pure.

Se però tutti sappiamo chi sia Einstein, e come la sua teoria della relatività abbia messo in discussione il nostro modo di concepire tempo e spazio, se molti di noi conoscono la versione divulgativa del principio di indeterminazione di Heisenberg (quello del gatto dentro la scatola, per intenderci, che non possiamo sapere se sia vivo o morto perché il nostro agire influenzerebbe lo stato delle cose), Kurt Gödel resta inspiegabilmente un personaggio noto quasi solo agli addetti ai lavori.

Eppure, proprio lo stesso Einstein, di ventisette anni più vecchio, pare abbia detto di Gödel che fosse l’uomo con l’intelligenza più acuta che avesse mai incontrato e di sentirsi onorato di poterlo frequentare. I due si conobbero a Princeton, alla cui università entrambi insegnarono dopo essere fuggiti dal Vecchio Mondo dove furoreggiava il nazifascismo: lì, ogni giorno, facevano insieme la strada da casa alla facoltà, e divennero amici, oltre che, evidentemente, scambiarsi riflessioni sugli interessi scientifici di ciascuno.

Gödel fu un uomo particolare, oltre che un matematico e un logico eccezionale (sua anche una prova ontologica), un vero e proprio genio suo malgrado, e la sua vita potrebbe essere, al pari di quella di molti altri geni, suoi contemporanei o venuti dopo, degna del grande schermo, ma pare che nessuno ci abbia ancora pensato (chi invece non ha visto La teoria del tutto sulla vita di Stephen Hawking?). Nacque in Moravia ma studiò a Vienna e fin da bambino mostrò di avere una salute cagionevole e la tendenza a una forte ipocondria. In particolare aveva l’irrazionale paura di venire avvelenato, tanto che sua moglie, Adele Nimbursky, ballerina in un night, divorziata, più vecchia di lui di sei anni, divenne la sua “assaggiatrice” ufficiale.

Furono proprio i suoi disturbi paranoici a portarlo alla morte, all’inizio del 1978, quando Adele venne ricoverata in ospedale per un ictus e non poté evidentemente adempiere a questo suo compito. Si disse venne ritrovato senza vita, raggomitolato in poltrona. Pesava 29 chili.

In realtà il disturbo psichico del grande pensatore era strettamente correlato alla sua attività di logico e matematico: i numeri, le sue scoperte, l’impossibilità che non pur volendolo dimostrò furono la sua ossessione. Lo divorarono.

Negli anni in cui ancora insegnava a Vienna come Privatdozent e frequentava il circolo di Wittegenstein, il filosofo del linguaggio, ebbe modo di entrare in contatto con il pensiero di David Hilbert uno dei più grandi formalisti dell’epoca, il cui obiettivo era quello, per l’appunto, di formalizzare l’aritmetica, cioè di trasformarla in un linguaggio in grado di “parlare di se stesso” in cui sintassi e semantica sono nettamente separate, e di provarne la “potenza”.

Hilbert all’inizio del secolo aveva steso una lista di ventitré “problemi aperti” cui si sarebbe dovuto dare risposta per sanare la “crisi dei fondamenti” che i pensatori come lui attribuivano alla disciplina, e ancora oggi i giovani matematici che ambiscono a vincere la Medaglia Fields (il massimo riconoscimento nel campo) cercano di risolvere i quesiti rimasti irrisolti. Il secondo dei Ventitré Problemi, che consisteva nel provare la coerenza dell’artimetica (ossia che non è possibile dimostrare al suo interno un’affermazione e anche il suo contrario) fu ciò a cui scelse di lavorare il giovanissimo Gödel, nel 1929, a soli ventitré anni.

Quello di Hilbert negli anni Venti era infatti diventato un vero e proprio intento programmatico (il cosiddetto Programma di Hilbert appunto): il tentativo di dimostrare metamatematicamente (cioè con dimostrazioni matematiche che hanno come oggetto la matematica stessa) la coerenza della matematica con metodi finitari (cioè che non chiamino in campo il concetto di infinito), ossia, semplificando, che la matematica è in grado di parlare di se stessa e che in essa non esistono ignorabimus, cioè proposizioni di cui non si può stabilire la verità o la falsità, chiamate tecnicamente indecidibili.

E Gödel, spesosi a favore della causa, si affacciò invece sull’abisso di quest’impossibilità, e non poté alla fine far altro che abbracciarla.

Nel 1931 pubblicò quello che è noto come Teorema dell’Incompletezza costituito da due enunciati, il secondo dei quali è il corollario del primo, che sostanzialmente (e semplificando un bel po’) dicono che un sistema matematico non può essere sia coerente (“non contraddittorio”) che completo (in grado di “parlare di tutto”).

Un sistema matematico non può essere sia coerente (“non contraddittorio”) che completo (in grado di “parlare di tutto”)

Questo risultato fece “deragliare il Programma di Hilbert” come scrive Francesco Berto nel suo Tutti pazzi per Gödel! (Laterza 2008), un saggio divulgativo in grado di rendere accessibile la procedura dimostrativa gödeliana, ma non solo: divenne il paradigma di un’impossibilità più grande, in cui il matematico in realtà mai si riconobbe, avendo come monito l’affermazione filosofica: “il mondo è intelligibile”.

Eppure gli spunti che il suo pensiero produsse ‒ una sinfonia, per citare il celeberrimo Hofstadter di Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante (Adelphi, 1984) furono tra i più fecondi, sia nel campo della successiva ricerca matematica, che in filosofia, nella comprensione delle arti, nello studio dell’intelligenza artificiale persino e infine, davvero, nell'interpretazione del mondo in generale. Basti solo pensare alla mastodontica opera di Hofstadter (852 pagine) appena citata in cui si mostra cosa passono avere in comune i canoni di Bach con i disegni di Escher e il teorema di Gödel. Vale sempre l’adagio di Galileo dunque: il libro della natura è scritto in linguaggio matematico, si provi a dire il contrario.

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