SOCIETÀ

L'energia solare negli Stati Uniti, il nucleare in Cina e il clima in politica

Il Dipartimento dell’Energia statunitense lo scorso 8 settembre ha pubblicato un rapporto, il Solar Futures Study, che mostra come gli Stati Uniti potrebbero aumentare la quota di elettricità prodotta da energia solare, passando dallo scarso 4% dell’attuale paniere energetico al 40% entro il 2035, per poi salire al 45% entro il 2050.

L’obiettivo delineato dall’amministrazione Biden sembra recepire quanto delineato dalla IEA, l’agenzia internazionale dell’energia, che nel suo rapporto Net Zero by 2050 indicava la strada per raggiungere la neutralità climatica: entro metà secolo il 90% dell’elettricità mondiale dovrà essere prodotta da fonti rinnovabili e solare ed eolico da soli rappresenteranno circa il 70%.

Il Solar Futures Study prevede infatti che la torta dell’elettricità statunitense abbia la sua fetta più ampia nel solare (40% - 45%), seguito da quella dell’eolico al 36%. Combinati, solare ed eolico produrrebbero circa il 75% dell’elettricità entro il 2035. Il resto verrebbe prodotto da idroelettrico (5% - 6%), biomasse e geotermico (1%), mentre il nucleare peserebbe tra l’11% e il 13% (ovvero resterebbe pressoché fermo a quanto già fa oggi).

Una simile combinazione energetica era tutt’altro che scontata. Ad oggi solo il 20% dell’elettricità statunitense è prodotta da fonti rinnovabili (e il solare è al 4%), mentre il 60% deriva da centrali termoelettriche alimentate a combustibili fossili. Nell rapporto annuale uscito a febbraio di quest’anno, la US Energy Information Administration prevedeva che al 2050 l’elettricità prodotta da fonti rinnovabili (dunque solare, eolico e altro ancora) avrebbe dovuto rappresentare il 42% del totale. Altrettanta sarebbe stata generata dal gas naturale (circa 40%) e il resto da carbone (10%) e nucleare (10%).

La svolta invece c’è e sembra essere decisa, anche se l’effettiva realizzabilità degli obiettivi dipenderà da provvedimenti e fondi messi in campo negli anni a venire. Il Congresso tuttavia potrà contare su trend consolidato che rende sempre più competitivo il prezzo dell’energia solare.

Le proiezioni statunitensi sembrano essere tutto sommato in linea anche con gli obiettivi fissati dall’Europa. Il pacchetto Fit for 55 approvato dalla Commissione Europea nel contesto del Green New Deal, oltre a prevedere una riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030 rispetto ai valori del 1990, mira a rendere rinnovabile il 40% di tutto il paniere energetico europeo, non solo quindi l’elettricità. Ciò significa che entro il 2030 in Europa circa i due terzi dell’elettricità dovrà essere generata da fonti rinnovabili.

Una corsa a tappe

Nel 2020 negli Usa sono stati installati 15 GW di solare, raggiungendo un totale di 76 GW disponibili. Per un raffronto, con le dovute proporzioni, in Italia abbiamo disponibili poco più di 20 GW di fotovoltaico e miriamo quasi a triplicarli entro il 2030. I ritmi di istallazione dei nuovi impianti dovranno perciò essere sostenuti. Gli Stati Uniti mirano a raggiungere 1000 GW di solare entro il 2035 e 1600 GW entro il 2050. Per farlo devono iniziare raddoppiando l’attuale installazione annuale portandola a 30 GW fino al 2025, per poi raddoppiarla ulteriormente a 60 GW l’anno fino al 2030, si legge nel rapporto.

L’operazione creerà dal mezzo milione al milione e mezzo di nuovi posti di lavoro entro il 2035. Sebbene la Cina domini la produzione mondiale di pannelli solari, gli Stati Uniti hanno recentemente bloccato l’import delle componenti dalla regione dello Xinjiang per motivazioni dovute allo sfruttamento del lavoro. L’idea sembra quindi essere quella di creare una filiera produttiva alternativa a quella cinese.

La riduzione delle emissioni permessa dallo sfruttamento dell’energia solare viene calcolata in un risparmio compreso tra i 1.100 e il 1.700 miliardi di dollari, più di quanto non costi la transizione, viene riportato. Parallelamente alla produzione di energia da fonti rinnovabili dovrà crescere il settore dell’accumulo energetico e del trasporto di energia, investendo quindi in batterie di nuova generazione e in reti intelligenti (smart grid).

Sebbene di transizione energetica si parli ormai da diversi decenni, solo fino a pochi anni fa non esisteva una consenso in merito a come realizzarla. Oggi diverse agenzie internazionali come IEA e IRENA, la Commissione Europea e ora anche il Dipartimento dell’Energia statunitense sembrano allinearsi attorno al fatto che l’elettricità prodotta da fonti rinnovabili sarà protagonista della transizione.

Energia, clima e politica

Il tema sarà centrale per i decenni a venire e ha già notevoli ripercussioni sul piano politico. Il cambiamento climatico è stato al centro del dibattito elettorale appena conclusosi in Norvegia con la netta vittoria del partito laburista che per la prima volta dopo 8 anni di indirizzo conservatore dovrà ora formare il nuovo governo, che sarà guidato dal leader di centro-sinistra Jonas Gahr Støre. Nonostante gli annunci di emancipazione dal petrolio e le ambizioni di sostenibilità (già il 70% delle auto oggi vendute in Norvegia è elettrico), l’economia norvegese rimane ancora fortemente dipendente dall’oro nero e fatica a separarsene. Il partito laburista tuttavia ha vinto con un margine che gli permette di non dipendere per il raggiungimento della maggioranza dai Verdi, che propongono soluzioni più drastiche sull’abbandono dei combustibili fossili.

Dopo le alluvioni che hanno colpito in estate il Nord Reno-Westfalia, il clima e la questione energetica saranno al centro anche delle imminenti elezioni in Germania, dove i Verdi governano già nel Baden-Württemberg e sono il terzo partito nazionale secondo i sondaggi.

Anche da una parte della comunità scientifica proviene un appello ad affrontare alla radice la crisi climatica. Più di 2000 scienziati da tutto il mondo hanno firmato una lettera indirizzata ai governi nazionali che si incontreranno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, invitandoli a firmare un trattato di non proliferazione dei combustibili fossili. Secondo la IEA per limitare a 1,5°C il riscaldamento globale è necessario sin da subito non inaugurare più nuovi pozzi di petrolio o giacimenti di gas, oltre che fermare l’estrazione del carbone. Uno studio appena pubblicato su Nature infatti stabilisce che sarebbe necessario lasciare nel sottosuolo quasi il 90% delle riserve di carbone (più di 820 miliardi di tonnellate) e quasi il 60% di quelle di petrolio (744 miliardi di barili) e gas (92.000 miliardi di metri cubi).

Nucleare

Nel frattempo la Cina, che sulle rinnovabili è avanti, ma allo stesso tempo è ancora fortemente dipendente dal carbone, sta valutando la fattibilità commerciale di centrali nucleari alimentate da reattori al torio. Si tratta di un metallo argenteo, debolmente radioattivo, che si trova naturalmente nelle rocce (in quantità più abbondanti dell’uranio, tradizionalmente usato come combustibile nucleare) ed è un prodotto dell’estrazione delle cosiddette terre rare, attività di cui la Cina è tra i leader mondiali.

Il progetto è stato lanciato nel 2011 e sono stati stanziati l’equivalente di 500 milioni di dollari. Al momento però il reattore di Wuwei, gestito dallo Shanghai Institute of Applied Physics, produce solo 2 MW di energia termica, sufficienti a soddisfare il fabbisogno di circa un migliaio di abitazioni. Se i test daranno esiti soddisfacenti la Cina mira a costruire entro il 2030 reattori da 373 MW: adatti a soddisfare la domanda energetica di centinaia di migliaia di abitazioni, ma proporzionalmente più costosi da realizzare.

Il reattore al torio usa sali fusi al posto dell’acqua e rispetto all’uranio genera meno scorie che rimangono radioattive per meno tempo. Tuttavia, come tutte le tecnologie basate sulla fissione nucleare, sembra essere soggetta ad alcune criticità ineliminabili. Lasciando da parte la questione dell’accettabilità sociale o sindrome Nimby (Not in my back yard – “non nel mio giardino”), un discorso che in Cina si declina sicuramente con paradigmi diversi da quelli occidentali, i costi e le tempistiche per la realizzazione sembrano essere dei seri ostacoli, per lo meno all’interno dell’intervallo di tempo richiesto dalla transizione energetica, che dovrebbe giungere a compimento nel 2050.

Secondo l’ingegnere nucleare Lyndon Edwards dell’Australian Nuclear Science and Technology Organisation di Sydney, intervistato da Nature, il torio potrebbe essere una tecnologia molto utile tra 50 o 100 anni. E per questo, aggiunge, sarebbe bene iniziare subito.

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