In questi ultimi tempi lo Zeitgeist sembra di nuovo spirare in direzione ostinata e contraria al processo di integrazione europea. Superato lo scorso anno il pericolo di una conquista dell’Eliseo da parte dell’estrema destra del Front National grazie all’impegno europeista di Macron e acquisito il suo piano di costruzione di un’Europa sovrana che abbia il compito di proteggere i cittadini dalle conseguenze più deleterie della globalizzazione, il tutto in un contesto in cui la ripresa economica si stava rafforzando, sembrava che fossero riunite le condizioni per un rilancio del progetto europeo.
In realtà, sullo sfondo della società continentale stavano maturando dei fattori di disgregazione legati all’incapacità dimostrata dall’Ue di far fronte in modo efficace alle sfide provenienti dall’aumento delle interdipendenze fra paesi, sia nell’ambito del quadro europeo, sia all’esterno a livello globale. Sul piano interno, la gestione della crisi del debito sovrano aveva comportato alti costi per i paesi periferici in termini di caduta del reddito, disoccupazione e aumento delle diseguaglianze; su quello esterno la governance dell’Ue si stava dimostrando incapace di difendere gli interessi europei non solo per quanto concerne i nuovi flussi migratori provenienti soprattutto dall’Africa e dal Medio Oriente, ma in generale di fronte al venir meno dei vecchi equilibri internazionali, che avevano retto i destini del mondo a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale. Come esito di questi fallimenti si sono progressivamente rafforzati i partiti e i movimenti populisti e nazionalisti sino a mettere in pericolo la tenuta delle democrazie liberali, sviluppi che in alcuni casi hanno condizionato fortemente i governi, come in Germania, o sono saliti al potere, come è accaduto dapprima nei paesi di Visegrad e quindi in Austria e in Italia.
In queste condizioni, la tradizionale alleanza della Germania con la Francia sulle tematiche europee si sta dimostrando più debole del previsto, a causa delle difficoltà della cancelliera Merkel nella gestione dei flussi migratori, affievolendo la spinta propulsiva impressa alla politica europeista di Macron in direzione del completamento del processo, mentre all’interno le resistenze dei paesi di Visegrad, dell’Austria, dell’Italia e dei paesi rigoristi del Nord mettono in discussione i possibili avanzamenti verso forme più efficaci e democratiche di governo dell’Unione; con l’aggiunta che all’esterno l’Europa si trova circondata da un ambiente ostile, i cui maggiori pericoli politici - al di là delle spinte destabilizzanti provenienti dai flussi migratori- sono oggi rappresentati dalla Russia di Putin e dagli Usa di Trump che si propongono di smantellarne gli assetti. L’Europa, dopo l’eutanasia della libera circolazione nell’ambito dell’area Schengen, sembra preda di pulsioni suicide suscitate da una ripresa delle tensioni fra paesi in presenza di un rafforzamento del populismo sovranista (il nuovo avatar della vecchia bestia nazionalista), mentre i paesi membri sembrano ripercorrere come sonnambuli la strada che cent’anni fa li ha portati alle due grandi guerre civili europee del secolo scorso.
Descritta in termini sintetici la crisi esistenziale in cui si trova immersa l’Europa, si presenta spontaneo l’interrogativo se e come sia possibile uscirne, non dimenticando che secondo alcuni le crisi sarebbero il fattore maieutico che dovrebbero portare a un avanzamento del processo in direzione di “un’unione sempre più stretta”.
L’identificazione delle cause della crisi richiederebbe un’analisi alquanto articolata che non è possibile qui affrontare. Limitandoci a quelle essenziali, che riguardano le cause di origine interna, sulle quali in ipotesi gli attori del processo di integrazione potrebbero intervenire per rimuoverle, esse possono essere individuate sulla base di un semplice esperimento mentale. Con riferimento alla gestione dei due recenti episodi cruciali di insufficienza delle politiche dell’Ue in occasione delle crisi dell’eurozona e dei flussi migratori, chiediamoci come avrebbe reagito l’Europa se il processo avesse già dato vita alle istituzioni tipiche di uno Stato federale: un governo sottoposto al controllo democratico di un parlamento dotato di poteri effettivi, in grado di tassare e di spendere, da un lato, e di condurre le principali politiche di carattere esterno e interno, dall’altro, unitamente all’esistenza di un bilancio comune e di una Banca centrale, la quale operi in via normale come un prestatore di ultima istanza. Se questo scenario alla als ob fosse già presente, la grande recessione associata alla crisi dell’eurozona sarebbe stata evitata, i flussi migratori sarebbero gestiti con una politica comune e i movimenti e partiti populisti e sovranisti avrebbero un peso modesto e men che mai sarebbero al governo in alcuni paesi.
La conclusione scontata è che l’Europa è in crisi perché non ha ancora portato a termine il suo processo di unificazione. E la responsabilità ne incombe agli attori del processo, principalmente gli stati e i partiti, che in questi settant’anni di integrazione non sono stati capaci di superare l’ostacolo storico della piena sovranità nazionale.
Da questo punto di partenza, il discorso si complica e investe argomenti quali: la natura contraddittoria del processo (gli stati europei dopo la seconda guerra mondiale erano “polvere senza sostanza”, secondo la definizione di Einaudi, ma l’integrazione economica ne ha rafforzato i poteri, in base alla teoria di Milward circa l’integrazione come rescuedegli stati nazionali), la spinta all’autoconservazione degli ordini vecchi (giusta l’osservazione di Machiavelli circa l’introduzione degli ordini nuovi), il passaggio dal metodo comunitario a quello intergovernativo in occasione della crisi dell’euro (con il prevalere degli stati creditori, guidati da una Germania preda dell’ideologia dell’austerità), per citare i principali.
L’ultimo argomento da affrontare ha che vedere con l’ipotesi che le crisi rappresentino il motore che fa avanzare l’Europa sulla via dell’integrazione.
Si tratta di una vecchia credenza, condivisa anche da Monnet e Spinelli, gli ispiratori dei due possibili approcci all’integrazione: il metodo funzionalista dell’Europa dei piccoli passi e il metodo costituzionale dell’Assemblea costituente. Il primo riteneva che “l’Europa si farà attraverso le crisi, e sarà costituita dalla sommatoria delle soluzioni che saranno date a queste crisi”. Spinelli, dal canto suo, pensava che di fronte a episodi acuti di impotenza che dimostrano la crisi degli stati nazionali, i governi saranno spinti ad avanzare soluzioni europee perché in tal modo sperano di mantenere i loro residui poteri.
Tuttavia la storia ci insegna che i raggruppamenti di stati a volte falliscono, come dimostrano, tra gli altri, i casi della fine dell’impero asburgico e del crollo dell’Unione sovietica.