SOCIETÀ

L'Europa e la "road map" dei Balcani

C’è chi l’ha definito un guscio vuoto, l’ennesimo red carpet a favore di telecamere utile soltanto per far sfilare i leader dei 27 stati membri dell’Unione Europea: una passerella senza risultati. Altri invece leggono, nel vertice che si è tenuto martedì scorso a Tirana, una rinnovata disponibilità, come un motore rimesso in moto dopo anni di stallo, dovuto anche a oggettive contingenze. Un gesto simbolico ma significativo per quegli Stati dei Balcani occidentali che da anni sono parcheggiati nella sala d’attesa di Bruxelles, nella speranza di entrare a far parte dell’Unione: Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia. Un passo più indietro, nella complessa e tutt’altro che rapida procedura di adesione (la candidatura della Macedonia del Nord risale al 2004, quella dell’Albania al 2009), restano la Bosnia-Erzegovina, la Georgia e il Kosovo. L’intento di Bruxelles è evidente: rilanciare la politica di allargamento a Est dell’UE, un passaggio accelerato dall’aggressione russa in Ucraina, e puntellarla con negoziati e intese economiche (un solo esempio, l’accordo sul roaming che consentirà tariffe telefoniche assai più contenute, da ottobre 2023, verso gli stati dell’UE) a favore dei Paesi dell’area, nel tentativo di farli sentire più vicini, più partecipi. In una parola: per evitare lo stallo, la diffidenza, la disillusione di chi ha chiesto di entrare ed è ancora fuori dalla porta. Il primo ministro albanese, Edi Rama, ha rimarcato con enfasi: «È la prima volta che l’Unione Europea esce dai suoi confini per un summit, e questo è avvenuto nei Balcani occidentali, in Albania. Credo che sia un fantastico segnale di consapevolezza e di apprezzamento per il ruolo del nostro paese nella regione, come elemento di pace, stabilità e cooperazione. L’Ue è qui per noi». Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, si è accodato sulla scia: «Unione Europea e Balcani occidentali stanno guardando nella stessa direzione. Sono assolutamente convinto che il futuro dei nostri figli sarà più sicuro e più prospero con i Balcani occidentali all’interno dell’UE».

La questione è, ovviamente, più complessa. L’Unione Europea ha tutto l’interesse ad allargare i propri confini orientali (il cosiddetto Processo di Berlino, lanciato nel 2014 dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel) : per ragioni commerciali, certamente, ma anche per costruire un più solido argine, con regole condivise, rispetto alle turbolenze dell’area (compresa la questione immigrazione, con la “rotta balcanica” assai frequentata). Come ha spiegato Olivér Várhelyi, commissario europeo per il vicinato e l'allargamento: «Se l'Europa vuole creare pace, sicurezza e prosperità a lungo termine, deve allargarsi. Perché se le regioni circostanti non fanno parte dell’Unione Europea, è chiaro che le vulnerabilità di questa regione non potrà che aumentare». Europa che, oltre a una comunione d’interessi in politica estera, chiede anche il rispetto di alcune regole fondamentali: la garanzia del sistema democratico, con istituzioni stabili, uno Stato di diritto, con la tutela delle minoranze, e che sia garantita un’economia di mercato. Che poi questi criteri non siano del tutto (o affatto) rispettati da Stati che fanno già parte dell’Unione (Polonia, Ungheria) è un’altra questione.

L’anomalia serba e il progetto Open Balkans

Gli Stati balcanici vedono invece nell’adesione all’UE un’occasione d’oro per elevare i propri standard economici: mercato unico, prezzi stabili, moneta comune, integrazione dei sistemi finanziari, sussidi economici indispensabili per garantire lo sviluppo e la crescita del paese. Anche se, com’è ovvio, al prezzo di un controllo sovranazionale sulla tenuta in equilibrio dei conti pubblici e del rispetto delle regole cui accennavamo prima. Il problema è che ci sono Stati che giocano contemporaneamente su più tavoli, cercando di trarne il maggior profitto possibile. Consapevoli che l’adesione darebbe loro risorse irraggiungibili altrimenti, ma emotivamente, ideologicamente, politicamente, con lo sguardo rivolto altrove. Come la Serbia di Aleksandar Vučić, che, pur aspirando a entrare nel club di Bruxelles, non ha mai reciso i suoi legami con il Cremlino e non ha mai aderito alle sanzioni europee contro la Russia: punto quest’ultimo sul quale l’UE batte con una certa insistenza. Nel frattempo Vučić continua a spingere per la realizzazione del forum Open Balkans, una sorta di accordo parallelo tra Serbia, Albania e Macedonia del Nord (definita una “mini Schengen”) per facilitare il transito di persone e merci nell’area. Come dire: se il progetto di adesione all’UE resta sulla carta, nel frattempo ci organizziamo (e l’Unione Europea si è già detta contraria al progetto). Kosovo, Bosnia-Erzegovina e Montenegro non hanno aderito, proprio perché temono che possa mettere a repentaglio il loro percorso verso l’Unione. Serbia che peraltro mantiene alta la tensione con il Kosovo per una questione soltanto all’apparenza marginale: l’introduzione da parte di Pristina dell’obbligo di re-immatricolazione delle auto con targa serba nel Paese (c’è tempo fino alla primavera del 2023). Scorie antiche e un confine difficile da condividere. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, li ha già avvisati: «Serbia e Kosovo sono a un bivio, devono decidere se imboccare la strada verso l’Ue o verso il passato». Anche la Serbia ha presentato nel 2009 la sua candidatura, ma i negoziati di adesione vanno avanti dal 2014: e ce n’è ancora di strada da fare.

Miliardi sul tavolo e accordo sulle Università

Quindi l’armonia che trapela dalle foto di rito scattate a Tirana rischia di restare pura forma, nonostante la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, si sia spesa con entusiasmo nel rimarcare i punti di contatto, di crescita. «È importante che Ue e Balcani occidentali affrontino insieme la crisi energetica, che diano soluzioni simili, dato che le famiglie e le imprese lottano ovunque alla stessa maniera per far fronte all’emergenza», ha sottolineato von der Leyen a Tirana. «E per questo, c’è un pacchetto di un miliardo di sostegno all’energia per la Regione». Sulla questione migranti: «Abbiamo un forte interesse comune a cooperare. Si tratta di gestire insieme la migrazione. A questo proposito, è importante per me trasmettere nuovamente il messaggio: potete contare sul nostro sostegno per affrontare la gestione delle frontiere e il processo di migrazione e asilo». Fino all’annuncio della realizzazione di un progetto che riguarda le università, proposto proprio dal governo albanese: «Le università dei Balcani occidentali potranno aderire alla rete delle Università europee. Ciò consentirà agli studenti di questa regione non soltanto di studiare fisicamente nelle diverse Università europee, ma anche di avere pieno accesso da remoto».

L’Unione Europea si trova oggi con due priorità: rassicurare i paesi candidati che il processo di adesione non si è interrotto (nel documento finale del vertice si riafferma “l’impegno pieno e inequivocabile a favore della prospettiva di adesione all'Unione europea dei Balcani occidentali e chiede l'accelerazione del processo di adesione, sulla base di riforme credibili da parte dei partner”), mettendo sul tavolo anche qualche sussidio convincente, e al tempo stesso sottrarre quegli stessi stati all’influenza economica della Russia (o di paesi dalla postura ambigua, come l’Ungheria, che ha appena bloccato il pacchetto di 18 miliardi stanziati dall’UE all’Ucraina per il 2023). Ma l’alleanza, nel suo complesso, non sarà formalizzata a breve (l’ultimo ingresso nell’Unione Europea, della Croazia, risale al 2013). Si prevede un processo ancora lungo e complesso, sul quale pesano gli assetti più o meno democratici dei governi locali. E se questa incertezza dovesse persistere, non è da escludere che si possa trovare una soluzione-ponte: consolidare la posizione dei Balcani occidentali con un accordo esterno, edificando una specie di dependance della casa comune europea.

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