Le esequie di un giornalista palestinese, deceduto nel 2022. Foto: Reuters
È intollerabile dover pagare, ogni anno di più, un prezzo così alto per l’informazione. Nel 2021 sono stati 47, l’anno scorso 67, mentre sono 97 in questo tragico 2023, che ancora non è finito: giornalisti che hanno perso la vita mentre svolgevano il loro lavoro. I numeri drammatici di quest’anno si sono impennati negli ultimi due mesi: 64 reporter palestinesi che non sono riusciti a sfuggire ai bombardamenti a tappeto che l’esercito israeliano continua a lanciare nella Striscia di Gaza, in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso. Vittime, con numeri assai inferiori, si registrano anche in Israele (4), in Libano, in Siria e in Ucraina (3), nelle Filippine e in Afghanistan (2). Un conteggio reso noto pochi giorni fa dall’International Federation of Journalists (IFJ), la più grande organizzazione di giornalisti al mondo, in rappresentanza di oltre 600mila professionisti dei media in 146 nazioni, che si batte per proteggere e migliorare i diritti sociali e professionali dei giornalisti, per la loro sicurezza, per la libertà di stampa. E che aggiorna quotidianamente il drammatico dato, nella sua home page. E a poco servono gli appelli, come quello firmato dal Segretario Generale dell’IFJ, Anthony Bellanger, che pochi giorni fa ha dichiarato: «Gli operatori dei media nelle aree di conflitto armato devono essere trattati e protetti come civili e devono essere autorizzati a svolgere il loro lavoro senza interferenze. L’IFJ invita tutti i combattenti in questo conflitto a fare tutto il possibile per salvaguardare i giornalisti e i professionisti dei media». Mentre Tim Dawson, vice Segretario Generale della stessa organizzazione, è tornato a chiedere l’intervento della Corte Penale Internazionale per far luce sull’omicidio della reporter di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, deliberatamente uccisa dai militari israeliani l’11 maggio 2022 mentre documentava un raid militare dell’Israel Defense Forces nel campo profughi di Jenin, nella Cisgiordania occupata. Il governo d’Israele ha sempre rifiutato di avviare un’indagine formale, limitandosi ad ammettere che c’era “un’alta possibilità” che Abu Akleh fosse stata “accidentalmente” colpita da colpi di arma da fuoco israeliani.
Crimini impuniti, di guerra e non
Perché poi, alla fine, quasi mai qualcuno risponde per aver commesso questi crimini. Come ha ribadito il mese scorso l’International Press Institute (IPI): «In mezzo alla spirale di violenza e agli attacchi contro la stampa, gli Stati devono urgentemente rispettare i loro impegni e obblighi per proteggere la sicurezza dei giornalisti – anche nelle zone di conflitto – e intraprendere azioni concrete per porre fine all'impunità per questi crimini. Negli ultimi tre decenni, oltre 1600 giornalisti sono stati uccisi nel corso dello svolgimento del loro lavoro, rendendo il giornalismo una delle professioni più pericolose al mondo. E soltanto in una piccola parte dei casi – appena uno su dieci, secondo le stime dell’UNESCO, che ha attivato uno specifico Osservatorio sui giornalisti uccisi, con un drammatico e dettagliatissimo database – i responsabili di questi crimini affrontano la giustizia. Ma un attacco deliberato a un giornalista durante una situazione di conflitto armato costituisce un crimine di guerra e deve essere indagato come tale». Come l’omicidio di Issam Abdallah, un giornalista di 37 anni, dell’agenzia Reuters, che il 13 ottobre scorso si trovava con altri colleghi nel sud del Libano per filmare in diretta gli scontri a fuoco in corso al confine tra le truppe israeliane e i membri del gruppo militante libanese Hezbollah. «Le prove che abbiamo – ha poi scritto la Reuters -, vale a dire analisi di frammenti di munizioni, immagini satellitari, i resoconti dei sopravvissuti e le registrazioni video filmate dal gruppo, mostrano che l’equipaggio di un carro armato israeliano ha preso di mira il gruppo di giornalisti uccidendo il nostro collega Abdallah, oltre a ferire gravemente la fotografa dell’agenzia France Press Christina Assi (28 anni, le hanno dovuto amputare una gamba) e altri cinque colleghi, due dei quali dell’emittente araba Al Jazeera». Scrive il Guardian: «Il diritto internazionale vieta di prendere di mira i giornalisti e il gruppo aveva scelto un luogo per le riprese su una collina aperta dove erano chiaramente visibili. Indossavano tutti caschi blu e giubbotti antiproiettile con la scritta “Press” ed erano rimasti nello stesso posto per quasi un’ora». Vuol dire che sono stati colpiti deliberatamente, per nascondere, per spegnere le telecamere, per non mostrare al mondo quanto stava avvenendo in quel momento su quel confine. Eppure il governo israeliano ha liquidato l’episodio con un’alzata di spalle. «Gli attacchi diretti contro i civili e gli attacchi indiscriminati sono assolutamente vietati dal diritto internazionale umanitario e possono costituire crimini di guerra», ha dichiarato la settimana scorsa Aya Majzoub, vicedirettrice regionale di Amnesty International per il Medio Oriente. «I responsabili dell’uccisione illegale di Issam Abdallah e del ferimento di altri sei giornalisti devono essere chiamati a risponderne. Nessun giornalista dovrebbe mai essere preso di mira o ucciso semplicemente per aver svolto il proprio lavoro. A Israele non deve essere permesso di uccidere e attaccare impunemente i giornalisti. Ci deve essere un’indagine indipendente e imparziale su questo attacco mortale». Secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ) la guerra tra Israele e Hamas è il conflitto più “mortale” per i giornalisti negli ultimi 30 anni.
E non finisce qui: perché poi ci sono i feriti, i dispersi, e il conteggio esatto diventa assai difficile. Più semplice monitorare il numero dei giornalisti attualmente incarcerati, che secondo l’International Federation of Journalists sono circa 400 in tutto il mondo: operatori dei media (reporter, editori, commentatori, scrittori, blogger) ai quali è stata tolta la libertà, e dunque la voce, solo per aver osato raccontare, svelare quel che i regimi vogliono tenere nascosto. Qui il record di arresti spetta alla Cina con 80 giornalisti imprigionati (compresa Hong Kong), seguita dal Myanmar con 54, i 41 della Turchia, 40 tra Russia e Crimea occupata, 35 in Bielorussia, 23 in Egitto.
Una fotografa di France Press in Libano nel 2023. Foto: Reuters
Governi aggressivi e autocratici
Per la stampa, per la sua libertà, per la sua incolumità, per la sua indispensabile funzione in una società democratica, l’anno che sta per chiudersi è di quelli da dimenticare. Già lo scorso maggio il report World Press Freedom Index 2023 stilato da Reporters Sans Frontières (Rsf) per valutare lo stato di salute del giornalismo in 180 paesi, pubblicato in occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa, rilevava un calo generalizzato nella libertà dei media, con 31 nazioni valutate in una “situazione molto grave” (record negativo del rapporto), “difficile” per 42 stati, “problematica” in 55, “soddisfacente” in 44 e “buona” appena in 8 nazioni (al primo posto c’è la Norvegia, poi Irlanda e Danimarca; l’Italia è in 41ª posizione, “soddisfacente”). Ma è impressionante vedere la rapidità con cui sta precipitando il livello di “libertà di stampa”: appena 10 anni fa, nel 2013, 26 nazioni erano in situazione “buona” e appena 20 in “situazione molto grave”. «L’aumento dell’aggressività da parte dei governi autocratici, e di alcuni che sono considerati democratici, unita a massicce campagne di disinformazione o propaganda ha fatto rapidamente peggiorare la situazione», commentava in quell’occasione Christophe Deloire, Segretario Generale di Reporters Sans Frontières. «Il World Press Freedom Index 2023 mostra un’enorme volatilità nelle situazioni, con importanti salite e cadute e cambiamenti senza precedenti, come l’aumento di 18 posizioni del Brasile e la caduta di 31 posizioni del Senegal. Questa instabilità è il risultato di una maggiore prepotenza da parte delle autorità in molti paesi e di una crescente animosità nei confronti dei giornalisti sui social media e nel mondo fisico. La volatilità è anche la conseguenza della crescita dell’industria dei contenuti falsi, che produce e distribuisce disinformazione e fornisce gli strumenti per produrla».
L’insofferenza verso una stampa libera e non controllata dalle autorità si sta rapidamente diffondendo. E non soltanto sotto regimi conclamati (dalla Corea del Nord alla Cina, dal Myanmar all’Iran, dalla Russia all’India, alla Turchia, oltre a diversi stati africani) ma anche in nazioni dove vige ancora una parvenza di democrazia, ma con governi che fanno dell’intolleranza verso i media una bandiera da brandire, dalla parte del bastone, contro chiunque osi criticare il loro operato: come l’Ungheria, come la Polonia finché al governo sono rimasti i nazionalisti di estrema destra del PiS. Oppure la Grecia, che nella classifica di Reporters Sans Frontières si piazza al 107° posto, ultimo tra i paesi dell’UE: nel suo ultimo rapporto annuale sul rispetto dello Stato di diritto tra gli stati membri, la Commissione Europea parlando della Grecia ha espresso preoccupazione per “il rischio di eccessiva influenza della politica sui media pubblici, per la poca trasparenza con cui vengono assegnati i finanziamenti governativi e per i crescenti attacchi, anche fisici, e le minacce subite da diversi giornalisti”. Alla fine del 2021 il Parlamento greco ha approvato una legge, presentata dal governo presieduto dal primo ministro Kyriakos Mitsotakis, che considera un reato la diffusione di “notizie false”: vale a dire notizie “che possano suscitare preoccupazione o paura nel pubblico, oppure minarne la fiducia nell’economia, nella capacità di difesa o nella sanità pubblica nazionale”. Il reato è punibile con condanne fino a 5 anni di carcere. Ma chi stabilisce cos’è una “fake news”? Il governo greco? «C’è il serio rischio che la disposizione possa essere utilizzata per punire i professionisti dei media, la società civile e chiunque critichi o metta in discussione le politiche del governo», denunciava all’epoca Eva Cossé, ricercatrice sulla Grecia di Human Rights Watch.
Media “nemici” in Slovacchia
Punire, spaventare, mettere a tacere i giornalisti è sempre stato il sogno, più o meno segreto, di tutti i regimi politici che proprio non tollerano in alcun modo il dissenso, la critica. E spesso, non potendo calpestare platealmente le Costituzioni, tolgono progressivamente “respiro” alla libertà della stampa nazionale, occupando quasi militarmente i media pubblici, uniformando la narrazione fino a farla scivolare verso la propaganda, denigrando o minacciando chiunque osi cantare fuori dal coro. E non c’è bisogno di guardare troppo in là per trovare esempi di questo “stile” di governo. L’ultimo allarme, per quel che riguarda l’Unione Europea, sta suonando in Slovacchia, con il primo ministro, Robert Fico, tornato al potere lo scorso ottobre (un populista “di sinistra”, leader del partito Smer-Ssd, che si proclama profondo estimatore di Donald Trump), che ha già comunicato la sua netta linea di condotta. «Ho annunciato azioni contro i media nemici che esprimono apertamente odio e ostilità contro Smer», ha dichiarato, facendo nomi e cognomi delle testate ostili: l’emittente tv Markíza, i quotidiani SME e Denník N, il portale online Aktuality. «I redattori di queste testate non sono benvenuti nel mio ufficio», ha poi aggiunto il premier Fico. Che nel 2018 era stato costretto a dimettersi dopo l’omicidio di Ján Kuciak, un giovane giornalista investigativo di Aktuality, e della sua fidanzata, Martina Kušnírová. Kuciak aveva rivelato che uno dei più stretti collaboratori di Fico era stato socio in affari di un membro del clan calabrese della ‘ndrangheta. E che uomini d’affari italiani legati alla ‘ndrangheta, con la complicità di politici locali corrotti, si erano stabiliti da anni nella Slovacchia orientale con l’obiettivo di mettere le mani sui fondi elargiti dall’Unione Europea. Uno scoop che ha pagato con la vita.