CULTURA

L'isola dell'abbandono, intervista a Chiara Gamberale

Quante volte abbiamo usato l’espressione abbandonare in asso senza chiederci perché si dica così quando qualcuno ci lascia di sana pianta, senza curarsi delle conseguenze?

Ebbene, Chiara Gamberale nel suo ultimo romanzo L’isola dell’abbandono (Feltrinelli, 2019) ricalca tra le righe l’origine etimologica dell’espressione, portando sulla pagina una storia attuale che affonda le radici nel mito.

La mitologia ci racconta infatti che Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro ed essere uscito indenne dal labirinto di Dedalo grazie al celeberrimo filo di Arianna, salpò alla volta di Atene portando con sé la giovane principessa figlia di Minosse. Ma ben presto cambiò idea, e tradì la promessa fattale, abbandonandola dormiente sull’isola di Nasso, dove si era fermato per fare rifornimento di cibo e di acqua. Due sono i finali tramandati dalla tradizione: che Arianna andò sposa a Dioniso, oppure che morì di dolore e si catasterizzò, cioè divenne una stella.

Non parla di questo Chiara Gamberale, non direttamente almeno, anche se in esergo alle varie parti del romanzo, tra citazioni di Borges, Ovidio e Camus, indirizza anche il lettore che questa storia l’avesse dimenticata. Ci racconta invece le vicende di una lei che subisce un duplice abbandono e, per i fatti, l’isola di Naxos (Nasso, appunto, ma come la conosciamo oggi, turistica), in cui si reca due volte a distanza di molti anni, diviene cruciale.

Quello a cui l’autrice riesce in questo suo romanzo, forse il più maturo, è di parlare di una vicenda singola, assolutamente contemporanea, e di renderla universale grazie ad una narrazione in terza persona che ricorda volutamente la prima e non ha vezzi di stile, il che non significa che non tocchi vertici di letteratura, ma resta sempre accessibile anche al grande pubblico.

Arriva per tutti il momento in cui” scrive a un certo punto “di quello che fa solo male, si può anche parlare. E le parole non bastano mai, non possono bastare, ma proprio per questo sono sante, perché in soccorso di quelle che non bastano ne arrivano di impensate, insperate, che magari con la ferita non c’entrano niente”.

Le sue, in questo romanzo, sono così. Sante. Catartiche.

Le parole non bastano mai, non possono bastare, ma proprio per questo sono sante, perché in soccorso di quelle che non bastano ne arrivano di impensate, insperate

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