SOCIETÀ

L’oceano del futuro: una prospettiva giuridica

“Gli ecosistemi marini sono in pericolo”. Così si apre un commento comparso su Nature, nel quale si evidenzia la centralità dell’oceano per il benessere delle società umane e si indica un possibile piano d’azione per scongiurare il rischio che tale straordinaria risorsa sia persa per sempre.

“I Paesi sono d'accordo – si legge nel contributo – sulle misure da adottare: utilizzare le risorse marine in modo responsabile ed equo e gestirle in modo sostenibile, evitando la pesca eccessiva, l'inquinamento e la distruzione degli habitat. La nostra conoscenza dell'oceano è ormai accurata. A mancare, ancora, è l’impegno da parte della politica per garantire la salubrità dell’oceano”.

Manca, in altri termini, una chiara determinazione delle rispettive responsabilità, da parte degli Stati e delle istituzioni internazionali, circa gli impegni di tutela degli ecosistemi marini – non solo quelli costieri, ma anche quelli che si trovano in acque internazionali – e il controllo e la limitazione delle attività illegali e potenzialmente dannose. In primo luogo, allora – ad auspicarlo sono gli stessi autori dello studio – è necessario avviare progetti ambiziosi vòlti alla riforma delle politiche nazionali e internazionali di gestione e salvaguardia dell’oceano. Si tratta di affrontare la questione nella sua declinazione giuridica, sciogliendo i molti nodi ancora irrisolti che rendono opache le modalità di amministrazione di un bene che è, per sua natura, privo di confini e perciò intrinsecamente comune.

In anni recenti la comunità internazionale ha mostrato positivi segnali d’interesse nei confronti del problema: uno dei 17 Obiettivi dell’Agenda 2030 (il quattordicesimo, “Life below water”) è interamente dedicato alla protezione degli ecosistemi marini, con numerosi target che avrebbero dovuto essere completati entro il 2020 – speranza che, purtroppo, non si è realizzata. Inoltre, nel 2018 è nato – su iniziativa della Norvegia e di Palau e con la partecipazione, ad oggi, di 14 Stati costieri – l’High Level Panel for a Sustainable Ocean Economy, i cui membri si sono impegnati a raggiungere, entro il 2025, obiettivi ben più ambiziosi di quelli previsti dalla pur virtuosa (sulla carta) Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Tuttavia, le tematiche da affrontare sono molte e diverse, e il tempo utile per agire si va assottigliando. L’oceano, infatti, sta vivendo una crisi silenziosa, dovuta al concorso di fattori destabilizzanti quali il cambiamento climatico, l’eccessivo sfruttamento delle risorse biotiche degli ecosistemi marini, l’inquinamento. Nel caso di un eventuale collasso degli ecosistemi oceanici, inoltre, ci troveremmo di fronte a un’emergenza non solo ambientale, ma anche economica e sociale: moltissime popolazioni traggono ancora oggi, in massima parte, i loro mezzi di sussistenza dal mare, che è dunque una risorsa insostituibile.

Uno dei principali problemi nella tutela degli ambienti marini – sottolineata anche dal primo ministro norvegese in una lettera pubblicata su Nature – è la mancanza di una chiara responsabilità sulle acque internazionali (che costituiscono circa il 60% degli oceani mondiali). Chi ha effettivamente il compito di preservare dalla pesca eccessiva, dall'inquinamento e dal sovrasfruttamento gli ecosistemi posti in acque internazionali? Esistono organi internazionali che hanno il potere di intervenire in tal senso, e se sì in che modo?

A rispondere alle nostre domande è Enrico Zamuner, docente di Diritto Internazionale all’università di Padova ed esperto di Diritto del mare.

«Questo compito – spiega il professore – spetta essenzialmente agli Stati, i quali sono legati a precisi obblighi che discendono da numerosi accordi internazionali sia specificamente dedicati alla materia della pesca, sia relativi alla protezione dell’ambiente marino dall’inquinamento, sia, più in generale, relativi alla preservazione e alla conservazione delle risorse biologiche del mare. Basti ricordare che la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 – una Convenzione a vocazione universale, che disciplina pressoché ogni aspetto giuridicamente rilevante delle attività che si svolgono nell’ambiente marino – impone agli Stati firmatari di adottare, nei confronti dei soggetti aventi la propria nazionalità, misure per la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare, nonché di cooperare fattivamente con gli altri Stati a tal fine.

A ciò si aggiunga che, limitatamente ai fondali marini che si trovano al di fuori della giurisdizione nazionale degli Stati costieri, trovano applicazione, in tema di esplorazione e sfruttamento delle risorse del suolo e del sottosuolo, specifiche norme che assegnano all’Autorità internazionale dei fondali marini, con sede a Kingston (Giamaica), rilevanti poteri normativi e di controllo in materia ambientale, che mirano in particolare alla prevenzione dei danni alla flora e alla fauna».

L’Agenda 2030 rappresenta il piano d’azione maggiormente condiviso, a livello internazionale, per contrastare l’attuale crisi climatica ed ecologica, e i problemi di natura sociale ed economica ad essa correlati. Fra le critiche mosse a questo documento, tuttavia, vi è il fatto che essa non è giuridicamente vincolante, e rischia dunque di rimanere un semplice elenco di buoni propositi. Le Nazioni Unite – si osserva da più parti – non hanno la capacità di controllare l'effettivo impegno dei paesi firmatari nel rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Questi problemi si ripropongono anche con l’Ocean Panel – al quale comunque hanno aderito, per ora, solo quattordici nazioni – oppure, in questo caso, c’è qualcosa di diverso?

«L’Agenda 2030, con i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile che essa contempla, è stata adottata mediante una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Si tratta di un atto privo di carattere vincolante. Tuttavia, il fatto che un programma di così ampio rilievo e l’avanzamento che ne consegue sul piano della cooperazione internazionale avvengano attraverso strumenti soft non ne sminuisce affatto l’importanza. Infatti, iniziative di questa natura, inclusa quella dell’Ocean Panel, sono sovente prodromiche allo sviluppo del diritto internazionale in senso hard. L’accordo di Parigi del 2015 è invece un accordo internazionale giuridicamente vincolante, che oggi conta più di 190 Stati parti e i cui effetti – che sul piano procedurale ed operativo sono stati precisati dal cosiddetto pacchetto sul clima di Katowice adottato nel 2018 – si possono ampiamente apprezzare, ad esempio, sul versante dell’azione di contrasto al cambiamento climatico attuata dall’Unione Europea».

Tra le numerose attività umane insostenibili, che mettono a rischio il benessere degli ecosistemi marini, il problema della pesca illegale – molto praticata soprattutto in acque internazionali, e difficile da individuare – è emblematico perché mostra l’impossibilità, da parte di entità transnazionali, di intervenire con strumenti adeguati per fermare un’attività illecita che ha vastissime implicazioni anche sul piano ambientale. In che modo affrontare questo genere di problemi con gli strumenti del diritto?

«Sul piano formale, lo strumento principale continuerà ad essere l’accordo internazionale. Sul piano sostanziale, invece, deve essere perseguito il rafforzamento della cooperazione fra Stati, non solo sul piano regionale. Fra gli altri, si potrebbe segnalare l’opportunità di allargare l’ambito soggettivo di accordi che contemplino poteri di polizia marittima che, su una base di reciprocità, autorizzino tutti gli Stati parti dell’accordo – in una cornice chiara e prestabilita – ad eseguire attività ispettive in alto mare su navi che battano la loro bandiera e, se del caso, a procedere con il sequestro, ed eventualmente la confisca, della nave e dei proventi dell’attività illecita».

Il diritto ha la capacità di implementare la realizzazione degli obiettivi di tutela degli ecosistemi marini entro i termini temporali previsti dall’Agenda 2030? In che modo una sinergia tra diritto internazionale e legislazioni statali può contribuire alla transizione verso il cosiddetto “sviluppo sostenibile”?

«Il diritto internazionale offre strumenti per conseguire obiettivi della più svariata natura, e di per sé non è in grado di assicurare un risultato apprezzabile se i destinatari non tengono un comportamento conforme alla regole che essi stessi hanno stabilito. Senza l’adozione di misure efficaci sul piano interno, non solo per l’obiettivo della tutela degli ecosistemi marini, ma per tutti gli obiettivi dell’Agenda 2030 vi sarebbe il rischio di andare ben oltre i termini da questa previsti. Pertanto, così come, nel perseguimento dello sviluppo sostenibile, non si può prescindere dalla volontà collettiva degli Stati sul piano internazionale, non si può nemmeno prescindere dall’adozione di norme interne, le sole realmente idonee ad indirizzare in maniera conforme la condotta degli individui e delle imprese».

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