La definizione di ironia è sfuggente, inafferrabile, asimmetrica, almeno doppia. Non è tanto un problema di etimologia, né di scienze; il termina implica una relazione fra un detto precedente o un fatto precedente e la replica (forse ironica) di altri a quel detto o fatto. Che l’antefatto sia meritevole di ironia non è automatico. Che la replica possa essere definita ironica dipende non solo dalle intenzioni ma pure da qualità e capacità di chi ha replicato, dal pubblico solitario o collettivo che ascolta e vede, ovviamente dall’autore del detto o del fatto. Quasi mai c’è perfetta identità di vedute. L’ironia è una reazione soggettiva, è causata da uno stimolo e attiva inevitabilmente un circuito di altri effetti. Faccio un esempio quotidiano, descrivo una situazione frequente, mettete voi i nomi corretti. Se capita di sottolineare ironicamente con una frase secca, con un ghigno o con un’alzata degli occhi una caratteristica di una persona cara, sia come un difetto conclamato che come discutibile specificità, non sempre d’acchito lei o lui tollera l’appunto e ci vuole più bene, a prescindere da quanto sinceramente ce ne voleva prima. Noi vorremmo farla o farlo solo riflettere con garbo e gusto, in teoria, poi certo ognuno è e fa come gli pare. Dunque non di rado l’effetto è contrario, stizza o muso o controbattuta che sia. E non è proprio detto che non abbia ragione lei o lui, almeno nella dinamica di quel rapporto. D’altro canto, la sottolineatura può cogliere una questione sostanziale per il presente e per il futuro, certo, l’ironia è il modo migliore per sollevarla, sorride non digrigna, buffetta non squarta, interrompe non travolge.
Azzardo una metafora calcistica. L’ironia è un onesto repentino sgambetto sulla soffice erba verde nel complicato campo delle friabili comunicazioni psicologiche e sociali fra gli umani. Non si vuol far male, ma si può far male davvero (a entrambi), può essere fischiato il fallo, ci si può aspettare un’entrata pesante quando poi ci passano la palla. Non sono rari quelli (di noi) che predicano bene e razzolano male. Per questo sarebbe forse utile introdurre nella definizione il pensiero, introdurre il pensiero ironico prima e accanto all’ironia. Pensare alle proprie specificità (tutte discutibili) e ai propri difetti (non solo quelli conclamati), relativizzare le convinzioni già nella nostra testa, poi vedere con equilibrio e saggezza come e quando renderle pubbliche per comunicare e relazionarsi, non coprirsi dietro la presunta spontaneità, aggiungere intanto un “forse” a ogni affermazione (non ironica) di cui pur siamo pienamente convinti. Essere comunque coscienti della parzialità e singolarità delle nostre opinioni, per quanto ampiamente condivise, dimostrate, maggioritarie.
Il pensiero ironico può essere poi dotato più o meno di cultura scientifica e di senso dell’umorismo, dipende, entrambi non sono universali. Educarsi a pensare con ironia è un piccolo antidoto alla continua lotta e competizione con gli altri, ancor più se violenta.Un buon pensiero ironico dovrebbe dare per scontato che talora non ci sia niente da ridere. L'ironia non esorcizza la realtà, qualche volta aiuta ad affrontarla. In ogni tempo, pure quando è cupo. Durante la pandemia da Covid-19 c'è poco da ridere: centinaia di migliaia di umani sono morti o stanno morendo, a causa della medesima malattia; oltre 4 miliardi hanno restrizioni di movimento e libertà, perlopiù dobbiamo restare a casa, alcuni altri lavorano a più non posso per salvare vite. Non dovremmo però fare a meno di pensare con garbata ironia; non dovremmo rinunciare leggere, comparare, confrontare opinioni; coltiviamo comunque l'immaginazione e qualcosa che la alimenti con stile e gusto; apprezziamo chi ci scherza un poco sopra, senza odio o strumentalità, con pensieri vignette frasi ironiche.
Lode al pensiero ironico e lode all’ironia, ordunque! Non si sfugge, è proprio sull’ironia che bisogna ancora riflettere e agire. Si sa che la parola viene originariamente da un sostantivo greco, finzione o dissimulazione o una cosa così (ambigua, asimettrica appunto); vocabolo connesso a sua volta col verbo indicativo dell’interrogare o domandare o una cosa così, fingendo di non sapere e di essere dubbiosi (appunto in un dialogo non solitario, a due almeno). Sia fra i greci che fra i latini ha poi una selva di riferimenti, a cominciare da Socrate e Platone. Ora, un grande epistemologo e matematico italiano contemporaneo ha pubblicato una splendida lode dell’ironia, ritraendola nelle sue molteplici forme storicamente determinate in vari campi della comunicazione umana. In questi tempi cupi, mi permetto di consigliare la lettura del recente volume di Giulio Giorello (Milano, 1945), ordinario di filosofia della scienza all’Università di Milano, La danza della parola. L’ironia come arma civile per combattere schemi e dogmatismi, Mondadori Milano, 2020 (pag. 111 euro 17). Nel volume si torna di continuo su cosa sia questa benedetta ironia, in parte più o meno lo sappiamo tutti: frasi e gesti umani, una battuta o una replica o una faccetta o un movimento che “ridicolizzano” qualcosa o qualcuno e così introducono uno o più elementi inusuali e/o inattesi e/o contrastanti e/o ambigui rispetto a quello che avevamo appena ascoltato, visto, letto, percepito. Ovvero un modo di mettere in discussione la comprensione data per scontata di parole e gesti. Uno sguardo diverso. Uno stimolo a introdurre spunti non abituali. Una forma per catturare l’attenzione. Uno strumento di umana conoscenza.
L’ironia non è per forza legata al linguaggio parlato o scritto, può derivare da azioni, serve comunque e sempre a far emergere qualcosa che non si aspettavano e a far riflettere su quanto era arrivato a occhi od orecchi. In linea di massima ridicolizza ma non attiva espressioni volgari, anzi è un antidoto colto alla volgarità (che quasi sempre è invece assenza di cultura), relativizza con scherzo ogni assoluta verità o certezza, gli schemi precostituiti. Sorriso e riso possono esserci certo, eppure l’ironia vuole soprattutto colpire, terremotare un concetto per non renderlo statico dogma. Dunque, talora può essere aggressiva, soprattutto quando si accompagna al sarcasmo o alla satira, pur mantenendosi sempre a distanza dalla violenza, sia fisica che psicologica. Anzi, contribuisce proprio a contenere gli sfoghi, a regolarli, ad articolarli, a non utilizzarli come un randello per mettere a tacere l’interlocutore (anche quando è un avversario). Non è mai una critica distruttiva fine a se stessa, ha una discriminante componente di creatività, scossa, ribaltamento, completamento rispetto al punto di vista che la sollecita. Non è solo un modo di operare, è un modo di vivere; non riguarda solo le cose che uno fa, ma quelle che uno è; pertanto non la si può praticare e amare se non la si applica di continuo a sé stessi. Solo così si e ci libera davvero, rende fertili gli errori compiuti, migliora la nostra esistenza terrena e i luoghi sociali che frequentiamo. Diventa, potremmo concludere, pensiero ironico comunitario.
Giulio Giorello argomenta meravigliosamente. Conclude che “l’ironia è una specie di danza della parola” (azzeccato delizioso titolo del volume, ispirato da Nietzsche): “un’arte difficile…perché bisogna, nello stesso tempo, avere considerazione per gli altri, e saper ridere di sé. Se ci si considera tutti una massa di imbecilli, è inutile cercare di comunicare con una forma sottile di ironia”. Ironizzare su qualcosa di detto o visto va preso in considerazione solo se abbiamo interesse e rispetto per chi ha parlato o agito; e bisogna poi esserne ben capaci, affinché costui prenda in “seria” considerazione la nostra ironia. O almeno ci sorrida su. Nello stesso tempo, se poi non sappiamo ironizzare su noi stessi, ridere un poco di noi stessi e di quel che ci dicono (dietro o davanti) gli altri, meritiamo scarsa considerazione dai conviventi. Arma civile certo, e però a doppio taglio, ibrida.
L’agile volume è distinto in tre parti: meno brevi le prime due sui fumetti, grande antica passione dell’autore (del resto in copertina c’è un “Bang!”), da Topolino a Paperino, da Tex a Linus, e sui ballerini che danzano con le parole, più o meno virtuosi (soprattutto contemporanei), con particolare dovuta attenzione alla letteratura gialla. La terza parte è dedicata, quasi in esclusiva, a due romanzi di mitici narratori, l’austriaco Robert Musil (“L’uomo senza qualità”) e l’irlandese James Joyce (“Ulisse”). Completano il testo la breve conclusione (“nel solco dell’Illuminismo”), le poche note numerate delle varie parti, i ringraziamenti finali (ma non l’indice dei nomi, che avrebbe molto incuriosito). Non è un trattato sull’ironia, non c’è nulla di sistematico; piuttosto uno zibaldone di riflessioni e citazioni di uno scrittore colto e poliedrico, scienziato e letterato, ironico e autoironico. Giorello lascia ampio spazio alla riproduzione di frasi e dialoghi, fra grandi personaggi letterari e personalità davvero vissute. Verbalizza le espressioni ironiche efficaci, talora inconsapevoli, nei fumetti e nei romanzi, fra i filosofi di ieri e di oggi, fra gli scienziati, nel mondo antico e presente delle istituzioni e dei partiti. E aiuta a orizzontarci per assorbire nostre virtuose ironie e autoironie.
Giulio Giorello ottenne due lauree circa cinquant’anni fa, di filosofo nel 1968 e di matematico nel 1971. Intrapresa la carriera universitaria, ha insegnato a Pavia, Catania, Varese-Como e al Politecnico di Milano. Ricerche e scritti hanno sempre seguito in parallelo le discipline fisico-matematiche e le varie dimensioni della convivenza sociale e culturale, una quarantina di volumi (talora in ottima compagnia), dai saggi per una storia della matematica (1974) alla filosofia di Topolino (con Ilaria Cozzaglio, 2013) e alla scienza di Leopardi (con Boncinelli, 2016). Ora, nel volume sull’ironia, danza ancora con le parole e procede avendo come filo alcune domande: c’è ancora, in giro?, cosa la elimina?, cosa la ripristina?, si può insegnare? Le risposte sono aperte, argute, stimolanti. Si parla spesso di politica e di religione; fra l’altro Giorello spiega perché nelle scuole non farebbe l’ora periodica di religione ma metterebbe il presepe ogni Natale. Opportunamente i romanzi gialli sono riassunti senza problemi di spoiler. Segnalo l’antinomia logica inventata secoli fa da Cervantes (maestro di “pensiero ironico” secondo Vázquez Montalbán, aggiungo), molto utile in questi decenni per ogni migrante che vuole scamparla, di passaggio fra paesi confinanti. Significativa la parte sulla complicata ironia del calzolaio che fa le scarpe (con tacchi più o meno alti). Ah, se tutti gli individui filosofi e scienziati fossero educati, culturalmente e politicamente, al pensiero ironico e autoironico come Giorello!