SOCIETÀ

La lunga mano della Cina su Hong Kong

I manifestanti indossano magliette nere, perché il nero è il simbolo della protesta, il colore del dissenso. E da quasi due mesi invadono le strade di Hong Kong per chiedere il rispetto dell’autonomia dell’ex colonia britannica, sancito dagli accordi di Pechino. La polizia indossa le divise antisommossa e tenta in ogni modo, a volte oltre il lecito, di reprimere la ribellione. La terza forza in campo non è ancora ben definita. Sono squadre di picchiatori, ognuna formata da dieci-quindici persone, che scorrazzano nei quartieri in cerca dei dimostranti, da colpire duro, senza distinzioni. Usano mascherine per coprire il volto, sono armati di bastoni. E indossano magliette bianche. Nei loro confronti, la polizia entra in “passive mode”: assiste, ma non interviene. Come il 21 luglio scorso, quando una di queste bande ha rincorso i dimostranti fin dentro i vagoni della metropolitana nella stazione di Yuen Long, a poca distanza da Shenzen, picchiando indistintamente chiunque fosse lì presente (pendolari compresi, il bilancio finale è stato di 45 feriti). C’è chi dice siano appartenenti alla Triade, la potentissima organizzazione mafiosa cinese che ha base proprio a Hong Kong. C’è chi insinua il sospetto che siano stati ingaggiati proprio dal governo cinese per tentare di scoraggiare, di terrorizzare chiunque avesse ancora intenzione di manifestare contro l’ingerenza cinese e di risolvere così, con le cattive, ma senza metterci la faccia, senza il crisma dell’operazione militare “ufficiale”, una situazione che dopo mesi di violenze e di esasperazioni sembra sul punto di esplodere. 

Poche ore prima di quell’aggressione in metropolitana, una marea di manifestanti aveva sfilato nelle principali vie di Hong Kong: le cifre ballano in casi del genere, ma alcuni giornalisti hanno parlato di oltre 400mila persone in piazza. Un corteo pacifico (composto in gran parte da studenti, professori universitari, professionisti), fin quando un gruppo di dimostranti è riuscito a sfondare un cordone di polizia e a lanciare uova contro la sede dell’ufficio di rappresentanza di Pechino. La polizia ha risposto con lancio di lacrimogeni e proiettili di gomma, disperdendo il corteo. Qualche ora dopo, sono andati in scena i raid punitivi delle magliette bianche. Il 28 luglio, nuova manifestazione e nuovi scontri: 44 manifestanti sono stati incriminati per “partecipazione a rivolte”. Tra loro anche un ragazzo di 16 anni e un pilota della Cathay Pacific, la compagnia aerea cinese che ha sede a Hong Kong.Rischiano fino a 10 anni di carcere.

La scintilla della legge sull’estradizione

E nell’ex colonia britannica sale la rabbia. Hong Kong, tornata alla Cina nel 1997 dopo 156 anni di amministrazione inglese, è alla ricerca di una nuova identità, soprattutto di una nuova e rinnovata forma di libertà, rivendicando una distanza storica, culturale, economica e politica dalla madre Cina. Perché Hong Kong ha un nome, una storia. E soprattutto una borsa, la settima più grande del mondo. Un paradiso fiscale da anni indicato come l’economia capitalista più libera al mondo, secondo la classifica “Index of Economic Freedom”, realizzata dal Wall Street Journal in collaborazione con la Heritage Foundation degli Stati Uniti. La prima scintilla della protesta, una proposta di legge sull’estradizione che avrebbe consentito di processare nella Cina continentale le persone accusate di aver commesso determinati crimini(proposta poi “sospesa” dalla governatrice Carrie Lam, alias inglesizzato di Cheng Yuet-ngor), sembra ormai quasi dimenticata. Perché la posta in palio è diventata molto più alta. Qui c’è in ballo la difesa della democrazia da una parte, e l’imposizione dell’obbedienza dall’altra. Una mediazione, oggi, non sembra possibile. Perché Pechino mal digerisce questa pretesa di libertà. Perché cedere alle richieste dei dimostranti potrebbe diventare un precedente pericoloso nella gestione degli altri “conflitti” in atto (da Taiwan al Tibet). Perché usare la forza (e basterebbe un nulla alla Cina per schiacciare in pochi attimi la rivolta) potrebbe comportare conseguenze negative sulle relazioni internazionali, soprattutto con gli Stati Uniti, che già hanno minacciato di riconsiderare lo status speciale di cui gode Hong Konga livello economico. Una specie di stallo. E Pechino non vuole sbagliare la mossa.

Un Paese, due sistemi

L’accordo del 1984 per il ritorno di Hong Kong alla Cina fu negoziato da Margaret Tatcher da una parte e Deng Xiaoping dall’altra. Si stabilì che a partire dal 1997 a Hong Kong sarebbe stato in vigore un compromesso politico definito “un Paese, due sistemi”.Vale a dire: l’isola avrebbe continuato a godere di una sua “indipendenza” (ma non per affari esteri e difesa) per almeno 50 anni. Ma il rispetto delle libertà concordate non è stato rispettato fino in fondo. L’ultima proposta di legge sulle estradizioni è stata letta come un tentativo di minare l’autonomia giudiziaria dell’ex colonia britannica (che adotta un sistema basato sul Common Law). Ancor prima, nel settembre del 2014, un tentativo di riforma del sistema elettorale portò a una serie di proteste che passarono alla storia come “la rivoluzione degli ombrelli”, repressa dalla polizia con violenza. Nelle scuole elementari sono entrati nuovi libri di testo, secondo i quali la Cina rappresenta il miglior modello politico al mondo, al contrario di quello degli Stati Uniti. Il messaggio è forte e chiaro: Hong Kong è già parte della Cina. Anche se gli accordi dell’84 dicono che mancano ancora 28 anni alla completa riannessione, prevista per l’1 luglio 2047.

Pechino: «Protesta alimentata da politici occidentali»

Le proteste e gli scontri di questi ultimi giorni sono oggi una spina nel fianco di Pechino. Che lancia generiche accuse all’Occidente. «Alcuni politici occidentali stanno alimentando la protesta a Hong Kong nella speranza di mettere in difficoltà la Cina e impedirne il suo sviluppo», ha dichiarato il portavoce dell’Ufficio del Gabinetto per gli affari di Hong Kong e Macao. «Ma questi tentativi non serviranno a nulla perché Pechino non tollererà interferenze esterne negli affari interni». Anche il capo esecutivo della Regione amministrativa speciale di Hong Kong, Carrie Lam, ha deplorato i recenti scontri, a seguito dell’intensificarsi delle proteste: «Lo Stato di diritto è alla base del successo di Hong Kong», ha dichiarato il 30 luglio. «Con la violenza non si risolvono i problemi: auspico che tutti i settori salvaguardino lo spirito del nostro Stato di diritto». La governatrice (molto criticata e al minimo storico di popolarità, oggi valutato attorno al 21%) ha anche detto che l’economia di Hong Kong si è indebolita nell’ultimo periodo, soprattutto per colpa degli attriti commerciali Cina-Usa. «Il governo della Regione amministrativa speciale di Hong Kong introdurrà misure per aiutare le aziende a far fronte ai rischi di pressione al ribasso per l'economia», ha promesso infine Carrie Lam.

Truppe cinesi schierate al confine

Ma la situazione potrebbe rapidamente precipitare. Un funzionario, coperto dall’anonimato, dell’amministrazione Trump ha svelato a Bloomberg Television che «…è in corso un ammassamento silenzioso di forze armate cinesi al confine con Hong Kong», precisando che la Casa Bianca sta monitorando la situazione “con attenzione”. Mike Pompeo, segretario di Stato Usa, ha suggerito alla Cina di «fare la cosa giusta» nella gestione della crisi di Hong Kong. «E’ la gente di Hong Kong che chiede al proprio governo di ascoltarli, quindi è sempre appropriato che tutti i governi ascoltino il loro popolo». La risposta di Pechino è stata immediata: «È chiaro che Pompeo si è messo nella posizione sbagliata. Pensa che le attività violente a Hong Kong siano ragionevoli perché, dopo tutto, sono una creazione degli Stati Uniti. Ma coloro che giocano col fuoco si auto-immoleranno». Un’aperta minaccia. Anche il responsabile dell’esercito cinese a Hong Kong, Chen Daoxiang, è uscito allo scoperto e ha dichiarato a un giornalista del Guardian:  «Sono determinato a proteggere la sovranità, la stabilità e la prosperità nazionale di Hong Kong».  E la tensione sale, in un’escalation drammatica, sempre più difficile da governare.

 

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