UNIVERSITÀ E SCUOLA

L’università-cavia e la resistenza di Padova

Giuseppe Zaccaria, rettore dell'ateneo di Padova dal 2009 al 2015, ha scritto un libro che tutti, nella comunità universitaria, dovrebbero leggere, malgrado la mole di oltre 500 pagine (Marsilio/Csup 2021). Lasciare un’impronta. Sei anni di rettorato (2009-2015) parla delle numerose realizzazioni del mandato di Zaccaria (su tutte, il nuovo Orto botanico) ma è soprattutto la cronaca di una resistenza. Una resistenza ostinata, intelligente e parzialmente vittoriosa al tentativo aziendalista di distruggere l’università italiana e trasformarla in un allevamento di polli in batteria destinati a svolgere funzioni ottuse e mal pagate nel cosiddetto mondo del lavoro. Un tentativo che si è concretizzato nella tristemente celebre legge 240/2010, più nota come legge Gelmini.

Questa la valutazione della legge che dà Zaccaria: “Molte disposizioni della legge, soprattutto perché coniugate con la logica meramente economica di continuo taglio dei finanziamenti all’università perseguita dal ministero dell’Economia, svelavano il disegno sottostante di un’università-azienda, talora stravolgendo filosofia e funzione formativa dell’istituzione. Di più, il tutto era accompagnato da un’ottica centralistica e burocratica, con un eccesso di rigidità e di normazione (...) che era destinata a impacciare e a rallentare ogni azione” (p. 36).

Come i diplomatici di carriera i rettori sono, devono essere, diplomaticiNon Zaccaria: “La dura realtà delle università in Italia nell’ultimo decennio è quella di amministrazioni pubbliche schiacciate dalle procedure e cavie di una sequenza ininterrotta di micro-innovazioni che non trovano il tempo per sedimentarsi: tutto il contrario di università libere e responsabili dei propri risultati, come è invece nel disegno dell’art. 33 della nostra Costituzione” La legge, aggiunge l’ex rettore, “rivelava una concezione punitiva nei confronti delle università, viste come luoghi popolati da una categoria di soggetti privilegiati e improduttivi, i docenti universitari”. 

Zaccaria rivendica l’idea di fondo di usare il processo di ristrutturazione delle università, pur con una ridotta autonomia, come “occasione innovativa, senza per questo stravolgere pratiche di lavoro ed efficienze consolidate”. Questo è stato fatto con trasparenza, adottando un piano triennale che mettesse nero su bianco la visione strategica dei compiti dell’ateneo e valorizzando il rapporto annuale del Nucleo di valutazione.

Sulla valutazione, però, il nostro ex rettore pecca di eccessiva indulgenza nei confronti di quel mostro burocratico chiamato ANVUR: con la sua creazione, “si poteva finalmente disporre di un soggetto nazionale che offrisse strumenti e parametri per un sensato benchmarking tra gli atenei” (p. 44). Indossando i panni del prudente diplomatico, Zaccaria aggiunge: “Talvolta l’Anvur ha prodotto l’impressione di voler essere non solo il soggetto che valuta il sistema, ma anche quello che ne vuole determinare le finalità”. Traduciamo a beneficio del lettore non addentro i misteri della macchina burocratica italiana: la valutazione della ricerca (VQR) è diventata il nuovo principio di autorità (Luca Illetterati), il grimaldello con cui scardinare autonomia e funzione critica delle università per inserirle a forza in una logica di mercato. 

E non è un’impressione: soffermiamoci per un attimo sulla VQR, che ci chiede di inserire nelle apposite banche dati dei “prodotti” (la parola dice tutto). Per come è stata disegnata, sulla base di indici bibliometrici, la valutazione non solo non valuta (perché sostituisce la quantità alla qualità) ma incentiva comportamenti opportunistici quando non fraudolenti: io cito te se tu citi me e io pubblico sulla tua rivista se tu riesci a mantenerla in fascia A. Il che ovviamente spinge i giovani ricercatori non a pubblicare pochi e buoni articoli sulle riviste più adatte ma, se vogliono fare carriera, molti e brutti articoli sulle riviste che il sistema ha collocato in fascia A.

Sugli elenchi delle riviste chi si vuole divertire non ha che da consultare la collezione di articoli di Roars, il sito che in questi anni ha più coerentemente contestato le politiche del ministero e analizzato le procedure dell’ANVUR. Al suo prezioso lavoro aggiungerò un solo esempio: tra le riviste di fascia A del mio settore (Scienza politica) compare Nurse Education Today, eccellente rivista scientifica che però si occupa di infermeria e ostetricia, non di parlamenti e governi. Nello stesso tempo manca Acoma, che nei suoi decenni di vita ha pubblicato più articoli sulla politica americana di quanto i membri del direttivo dell’ANVUR abbiano letto in vita loro. Non ho dubbi che Zaccaria per le riviste giuridiche, insieme ai colleghi di ogni disciplina umanistica, potrebbe citare dozzine di esempi dello stesso tipo.

Analizzando le logiche del sistema, già nel 2008, lo storico della scienza Lucio Russo scriveva: “Chi vuole intraprendere strade non ancora accettate dalla comunità, in primo luogo, ha difficoltà a pubblicare, scontrandosi con un muro omogeneo e anonimo. Se anche (...) riuscisse nell’intento di inaugurare una scuola di pensiero alternativa sarebbe ovviamente poco citato, perché sarebbero ben rari i ricercatori che sceglierebbero di entrare in un gruppo minoritario, sapendo che il meccanismo quantitativo di valutazione, basato sul numero di citazioni, attribuirebbe ai loro risultati certamente un valore minimo. Il meccanismo per sua natura evidentemente si autoalimenta, generando automaticamente omogeneità”.

Ma torniamo a Zaccaria, che segnala i pericoli a lungo termine creati dalle controriforme dell’ultimo decennio per l’università del futuro: “Il rischio, concretissimo, è di trasformare i docenti in burocrati, la cui attività è progressivamente svuotata di significato e diventa impersonale adesione a una grande corporationburocratica” (p. 47).

“Sono stati anni – possiamo vederlo oggi con occhio più lucido e distaccato - di crisi non solo economico finanziaria ma anche culturale e morale del Paese, che ha tolto dignità e riconoscimento ai valori della cultura e della conoscenza” conclude Zaccaria. Si può non essere d’accordo con lui?

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