SCIENZA E RICERCA

Mai più razzismo nella comunità scientifica

Ciao Pietro. Le colleghe e i colleghi della redazione ti vogliono ricordare nel modo più bello: attraverso i tuoi articoli, il tuo pensiero critico e sempre puntuale. Tra i tanti pezzi che hai scritto – sarebbero troppi da mettere tutti – abbiamo fatto questa selezione che vorrebbe riassumere i tuoi molti punti di vista sulla scienza, sulla società e sulla storia di entrambe.

 

La scienza è parte del problema. Dobbiamo tutti impegnarci perché diventi parte, importante, della soluzione. Chi scrive è Marcia McNutt, presidente della National Academy of Sciences degli Stati Uniti. E il problema è quello messo in luce (ancora una volta) dalla violenza brutale di un gruppo di poliziotti a Minneapolis che hanno causato la morte di George Floyd il 25 maggio scorso. 

Quella di Marcia McNutt è un appello a tutti i membri della sua istituzione sotto forma di lettera aperta pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences. L’analisi di Marcia McNutt non è nuova, nelle sue linee generali. Lei ricorda che la vita media di un nero o anche di un bianco ispanico rispetto a un bianco a parità di condizione di reddito e di quartiere nella gran parte delle città americane è di dieci anni inferiore. Che anche il virus SARS-CoV-2 è selettivo: tra i neri è tre volte più letale che tra i bianchi. Che l’accesso alle cure e in generale al sistema sanitario è clamorosamente meno facile per la popolazione di colore.

Tutto questo lo sappiamo, perché esiste una sconfinata letteratura che da decenni lo documenta. Ma Marcia McNutt aggiunge altro. Che suona abbastanza nuovo: la comunità scientifica non fa abbastanza per sanare queste ingiustizie fondate su un razzismo di fondo. Di più, la discriminazione razziale esiste anche all’interno della comunità scientifica. Gli afroamericani e gli ispanici ne sono troppo spesso vittime. Occorre prenderne atto e porre fine al più presto a questo razzismo tanto più odioso proprio perché interno (anche) al mondo della scienza. Tanto più, aggiungiamo noi, che uno dei valori fondanti della comunità scientifica – come evidenziava il sociologo Robert Merton già negli anni ’40 del secolo scorso – è l’universalismo: chiunque può (deve poter) fare scienza, senza discriminazione di genere, di etnia, di opinioni politiche, di religione, di orientamento sessuale. 

Una presa di posizione analoga è stata proposta, più o meno nelle stesse ore, dalla rivista scientifica inglese Nature: troppo a lungo, si legge nell’editoriale che apre l’ultimo numero, alle persone discriminate per il colore della pelle o per l’etnia è stata negata persino un luogo dove esprimere la propria protesta. E aggiunge: «Noi riconosciamo che Nature è una delle istituzioni di bianchi responsabile degli errori nella ricerca e nella formazione. L’impresa scientifica è stata – e rimane – complice del razzismo sistematico e deve lottare con forza maggiore per correggere queste ingiustizie e amplificare la voce di chi è marginalizzato».

Sì, questa è una novità. La comunità scientifica nelle sue diverse articolazioni tanto negli USA quanto in Europa sta prendendo sempre maggiore consapevolezza del problema razzismo anche tra le sue fila. Un problema che deve essere risolto: ogni minuto in più è intollerabile.

C’è da chiedersi, piuttosto, come mai la scienza non è ancora diventata una soluzione al problema e continua a esserne una parte importante. Eppure dovrebbe essere vaccinata. La sua storia ha attraversato il tema del razzismo. Charles Darwin già nella seconda parte del XIX secolo ha dato un contributo formidabile nel dimostrare che le razze umane non esistono.  

Eppure il razzismo ha allignato a lungo anche (e, verrebbe da dire, soprattutto) dopo le riflessioni del naturalista inglese. A cavallo tra Ottocento e Novecento i pregiudizi contro gli ebrei erano diffusissimi in tutta Europa. Quando nel 1909 Albert Einstein ottenne finalmente una cattedra al Politecnico di Zurigo, ricorda Abraham Pais, vince l’aperto pregiudizio razziale dei commissari. Vale la pena ricordare per esteso le motivazioni:

Queste valutazioni del collega Kleiner [che aveva delineato la genialità del fisico teorico, nda], basate su anni di conoscenza personale, sono state assai preziose per il consiglio e in generale per la Facoltà: il dottor Einstein infatti è un ebreo, e proprio gli studiosi israeliti vengono dipinti (in molti casi non del tutto a torto) in possesso di qualità sgradevoli di ogni genere: in particolare l'invadenza, l'arroganza e una visione da bottegai del ruolo accademico. Va peraltro detto che anche tra loro non mancano le brave persone e che non è giusto quindi escludere un candidato solo perché casualmente è ebreo. Tanto più che anche tra i non-ebrei vi sono individui che pensano solo a utilizzare la professione accademica a fini commerciali, sviluppando così proprio quelle qualità che sono di solito considerate tipicamente "giudaiche". Di conseguenza, il consiglio e la Facoltà tutta hanno considerato incompatibile con la propria dignità eleggere l'antisemitismo a principio politico, e del resto l'informazione che il collega Kleiner è stato in grado di raccogliere a proposito del carattere di dottor Einstein ci ha completamente rassicurati».

Insomma, lo accettiamo perché è un ebreo buono.

Quanto male il pregiudizio razziale abbai fatto agli ebrei e alla scienza europea è cosa nota. Con le leggi razziali di Hitler l’asse scientifico del mondo si sposta definitivamente dall’Europa all’America, mentre pochi anni dopo milioni di ebrei vengono sterminati nei lager nazisti (e fascisti). Tempo fa è uscito un libro a opera di Jean Medawar e David Pyke intitolato Hitler’s Gift: The True Story of The Scientist Expelled by the Nazi Regime, il cui succo è questo: il razzismo hitleriano si è risolto nel miglior regalo che potesse essere fatto agli Stati Uniti da parte dell’Europa, la leadership scientifica.

Dunque la comunità scientifica internazionale è ben consapevole – proprio perché è scritto nella sua storia – sia della infondatezza della discriminazione razziale sia dei mali che può provocare. Resta la domanda: perché allora il razzismo strisciante si intrufola nelle sue fila?

La domanda è aperta. Ma l’azione no. Non può che essere una e chiara, come sostengono Marcia McNutt e il direttore di Nature: mettere al bando ogni discriminazione con azioni concrete. La presidente della National Academy of Sciences ha proposto ai membri della sua istituzione cinque punti fondati sull’inclusione. Nature si offre come piattaforma per una discussione approfondita che parte da un’assunzione esplicita di responsabilità. Occorre che questa discussione e queste autocritiche costituiscano le fondamenta per rendere l’impresa scientifica davvero universalistica, perché l’umanità ha bisogno dell’intelligenza di tutti.

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