SOCIETÀ

Il Messico sta approvando una legge contro l'ecocidio

Il vocabolario giuridico universale è zeppo di termini che definiscono con esattezza il reato penale conseguente alla soppressione violenta di una vita (omicidio, suicidio, eccidio) o di una condizione sociale (liberticidio). Ma quando la vittima è la natura? Come comportarsi, a livello giuridico, se ci troviamo di fronte a una deliberata e massiva distruzione dell’ecosistema, peraltro con conseguenze che potrebbero essere fatali per le specie viventi, umane e animali, in quel determinato territorio? Nella maggior parte dei paesi del mondo il danneggiamento dell’ambiente è già un reato, con differenti sfumature di severità in caso di condanna. Ma sempre più si sta affermando la necessità di ampliare lo spettro d’intervento, facendo spazio a una (relativamente) nuova forma d’illecito che possa includere i più eclatanti crimini commessi nei confronti dell’ambiente, anche in tempi di guerra: l’ecocidio.

L’ultimo paese che sta tentando d’inserire la definizione di reato nella sua legislazione è il Messico. Con un disegno di legge che si propone di criminalizzare “qualsiasi atto illegale o arbitrario commesso con la consapevolezza che esiste una sostanziale probabilità di danni gravi e diffusi o a lungo termine all'ambiente”. Definizione che ricalca quella stilata nel 2021 da un gruppo di esperti legali (“per ecocidio si intendono atti illeciti o arbitrari commessi con la consapevolezza che esiste una notevole probabilità che tali atti causino danni gravi e diffusi o a lungo termine all’ambiente”), che si proponeva d’inserire l’ecocidio come quinto reato perseguibile dalla Corte Penale Internazionale, tribunale con sede a L’Aja istituito con lo Statuto di Roma, insieme al genocidio, ai crimini contro l'umanità, ai crimini di guerra e ai crimini di aggressione. Perché il principio è più ampio di quel che può sembrare: un ecocidio è un reato contro la Terra, ma di conseguenza anche contro gli esseri umani, contro la vita. Dunque equiparabile a un crimine internazionale come il genocidio, comunque contro l'umanità. Perché il danno conseguente, spesso, non è soltanto ambientale, ma può essere culturale, psicologico, fino a colpire nel profondo le comunità che abitano quel territorio. Basti pensare alla deforestazione feroce dell’Amazzonia, e alle ferite irreversibili che questi atti criminali hanno provocato alle popolazioni indigene che per millenni hanno vissuto in simbiosi con quegli ecosistemi. 

L’Agente Orange e la guerra in Vietnam

Il concetto di ecocidio ha radici lontane: se ne parla da oltre cinquant’anni, e questo la dice lunga sulle resistenze (culturali, oltre che criminali) che il principio ancora oggi continua ad affrontare per riuscire a imporsi nelle legislazioni internazionali e dei singoli paesi. Era il 1970 quando un biologo americano, Arthur W. Galston, dell’Università di Yale, coniò per la prima volta il termine “ecocidio”. Lui stesso aveva condotto negli anni 60 esperimenti con l’acido triiodobenzoico (noto anche come “ormone anticrescita”) arrivando a stabilire che, utilizzato in determinate percentuali, faceva fiorire più rapidamente i semi di soia. Ma scoprendo anche che, se impiegato in dosi massicce, poteva trasformarsi in un potentissimo defoliante. La sua scoperta venne utilizzata dagli scienziati delle più importanti industrie chimiche che lavoravano per il governo degli Stati Uniti durante la guerra in Vietnam (dalla Dow Chemical alla Monsanto): il defoliante, al quale fu aggiunto un mix di sostanze chimiche, tra le quali la diossina, per aumentare la sua potenza, venne chiamato in codice “Agente Orange” (nome che derivava dal colore delle strisce presenti sui fusti usati per il trasporto) e sparso in enormi quantità nelle foreste, soprattutto nel centro e nel sud del Vietnam, nel Laos sud-orientale e in alcune zone della Cambogia (secondo varie fonti furono irrorati tra i 50 e i 90 milioni di litri) con il doppio obiettivo di privare i Viet Cong della copertura naturale della giungla e compromettere al tempo stesso i loro raccolti, oltre a consentire (a un prezzo allora non del tutto prevedibile) di disboscare rapidamente le stesse basi militari americane. Si stima che oltre 300mila soldati statunitensi e circa 400mila vietnamiti morirono, tra il 1962 e il 1971, proprio a causa delle esposizioni all’Agente Orange. Ma i danni provocati ai milioni di persone sopravvissute all’esposizione sono stati incalcolabili: dalle varie forme di tumore all’ipotiroidismo, dalla cardiopatia ischemica al linfoma di Hodgkin, dal morbo di Parkinson al diabete, fino agli aborti spontanei e alle malformazioni congenite (spina bifida) nei figli successivamente concepiti dai veterani. Secondo il centro medico accademico Cleveland Clinic «…l’Agente Orange è stato estremamente mortale perché gli Stati Uniti hanno spruzzato nell’ambiente 20 volte più di quanto raccomandato dai produttori dell’erbicida. Gli effetti dell’uso dell’Agente Orange sono ancora presenti oggi tra i veterani del Vietnam e tra i vietnamiti che vivono nel Vietnam centrale e meridionale». Il biologo Galston denunciò a voce altissima nel 1970, a guerra ancora in corso, quanto stava accadendo, definendo appunto un “ecocidio” la condotta (irresponsabile e sciagurata) dell’esercito degli Stati Uniti. La sua protesta fu raccolta nel 1972 dall’allora primo ministro svedese Olof Palme, che in una conferenza delle Nazioni Unite a Stoccolma parlò esplicitamente della guerra del Vietnam come “una forma di ecocidio”, chiedendo l’approvazione di una legge internazionale per porre fine all’impunità per la distruzione ambientale di massa: richiesta alla quale aderì anche la premier indiana Indira Gandhi. 

Da allora molta strada è stata fatta, ma evidentemente non ancora abbastanza. Secondo il sito web Ecocidelaw.com, indispensabile riferimento per gli aggiornamenti in materia, a oggi soltanto Russia, Ucraina, Kazakistan, Tagikistan, Georgia, Bielorussia, Moldova e Armenia hanno legislazioni che contemplano esplicitamente il reato di ecocidio, con pene che variano tra i 10 e i 40 anni di carcere. Proprio l’Ucraina ha aperto due procedimenti penali contro la Russia, accusandola di un doppio ecocidio. Il primo per aver fatto esplodere la diga di Nova Kakhovkala (30 metri di altezza per due chilometri di lunghezza), sul fiume Dnipro. Il suo crollo, lo scorso 6 giugno, ha provocato l’inondazione di 230 miglia quadrate di territorio. Il secondo per aver provocato la morte di migliaia di delfini nel Mar Nero. Anche la Francia, nel 2021, ha trasformato l’ecocidio in legge, anche se con una formulazione non così netta come chiedevano gli attivisti. L’argomento però è ormai stabilmente approdato sui tavoli che contano. Lo scorso marzo la Commissione Giuridica del Parlamento Europeo ha sostenuto, con un voto all’unanimità, l’inclusione dei reati di ecocidio nella direttiva riveduta dell’UE sui reati ambientali. Se il testo sarà accolto anche dal Consiglio e dalla Commissione Europea, tutti gli Stati membri dell’UE saranno tenuti a inserire il crimine di ecocidio nella legislazione nazionale. A oggi sono state presentate proposte in tal senso nei Paesi Bassi e in Belgio, in Spagna e in Islanda (che non è membro UE, ma che fa parte dello Spazio Economico europeo). In Scozia è prevista una consultazione popolare il prossimo autunno. Anche in Brasile, dove la deforestazione della foresta pluviale amazzonica è universalmente identificata come un crimine, a parte i seguaci dell’ex presidente Bolsonaro, il partito politico PSOL (Socialismo e Libertà) ha presentato lo scorso giugno al Congresso un disegno di legge sull’ecocidio, il primo del genere in America Latina.

Il Messico accelera

E in questa ideale staffetta, che punta a rendere formalmente e universalmente un crimine l’ecocidio, ecco farsi avanti il Messico, un paese che peraltro sta per affrontare un delicatissimo passaggio politico, con le elezioni presidenziali fissate per il 2 giugno del prossimo anno e con l’attuale presidente Andrés Manuel López Obrador, del Movimiento Regeneración Nacional (Morena), che ha già annunciato il suo ritiro da qualsiasi attività politica («Mi dedicherò alla scrittura», ha dichiarato). Il disegno di legge sull’ecocidio è stato presentato il 30 luglio scorso dalla deputata Karina Marlen Barrón Perales, del Partido Revolucionario Institucional (PRI), un partito di centro che alle prossime presidenziali si presenterà alleato con un partito conservatore di destra (il Partido Acción Nacional - PAN) e uno progressista di sinistra (il Partido de la Revolución Democrática - PRD), un’alleanza, chiamata Frente Amplio, costruita a tavolino proprio per sconfiggere il partito del presidente uscente. Ed è verosimile che saranno due donne a contendersi la prossima presidenza del Messico: per Morena la candidata dovrebbe essere l’ex sindaco di Città del Messico Claudia Sheinbaum, fisica, scienziata affermata, che potrebbe vedersela con la senatrice Xochitl Galvez, imprenditrice di origini indigene, una laurea in ingegneria: al momento la favorita per rappresentare il Frente Amplio (tra pochi giorni si terranno le primarie). Attenzione però all’incognita Narcos, con le infiltrazioni sempre più frequenti, e documentate, dei narcotrafficanti nella politica messicana: dal cartello Jalisco New Generation a quello di Sinaloa, «probabilmente il più potente gruppo criminale al mondo», stando al parere di Mike Vigil, un ex agente della Drug Enforcement Administration (DEA), l’organizzazione federale antidroga americana. E anche all’incognita americana, con il candidato repubblicano Ron DeSantis che pochi giorni fa ha ribadito la sua promessa a inviare, se sarà eletto, forze speciali statunitensi in Messico per affrontare i cartelli della droga.

La sfida del Treno Maya

Le elezioni presidenziali messicane non dovrebbero comunque interferire con il disegno di legge che si propone di criminalizzare “qualsiasi atto illegale o arbitrario commesso con la consapevolezza che esiste una sostanziale probabilità di danni gravi e diffusi o a lungo termine all’ambiente”. Il testo, che prevede per i colpevoli una pena detentiva tra i 10 e i 15 anni e una multa tra i 1000 e i 1500 pesos al giorno (da 54 a 82 euro) sarà sottoposto nelle prossime settimane alle commissioni Giustizia, Ambiente e Risorse Naturali. «Ci sono città e interi stati che devono affrontare un gravissimo inquinamento atmosferico e un altrettanto grave inquinamento delle acque nei fiumi, nei mari e nei laghi», ha spiegato la deputata Barrón Perales.

In realtà l’obiettivo del Frente Amplio, che diventerà terreno di scontro politico in campagna elettorale, è ostacolare il mega-progetto ferroviario Maya, sostenuto con forza dal presidente uscente, che attraverserà la penisola dello Yucatan, portando i turisti dalle spiagge di Cancún e Tulum ai siti archeologici Maya di Chichen Itza e Palenque, nel cuore della giungla: un percorso di 1.525 chilometri (con treni diesel ed elettrici, costo del progetto 20 miliardi di dollari) che taglierà in due le terre in gran parte abitate da gruppi indigeni. I lavori di costruzione sono cominciati nel 2020, e già tremila famiglie che vivevano a ridosso del percorso ferroviario sono state sfollate. Secondo il presidente messicano, che ha dichiarato la linea ferroviaria un progetto di sicurezza nazionale (con l’esercito a pattugliare e a sorvegliare i lavori di costruzione) la “Tren Maya” porterà posti di lavoro e infrastrutture in una delle regioni più povere del paese. Ma decine di scienziati messicani stanno denunciando l’eccessiva fretta nei lavori, senza che siano stati terminati adeguati studi sul fragilissimo e incontaminato sottosuolo: «La costruzione frettolosa della ferrovia mette in pericolo la natura incontaminata e gli antichi sistemi di grotte (chiamate “cenotes”) che si trovano nel sottosuolo della giungla», denunciano gli attivisti ambientali. «Non vogliono riconoscere la fragilità della terra», ha commentato alla Retuers  Fernanda Lases, scienziata di Merida dell’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM), definendo i problemi individuati «altamente preoccupanti». Lo scorso dicembre gli esperti delle Nazioni Unite avevano avvertito che lo status della ferrovia come “progetto di sicurezza nazionale” aveva permesso al governo messicano di eludere le consuete salvaguardie ambientali, invitando il governo stesso a proteggere l’ambiente in linea con gli standard globali. È bene infine ricordare che il Messico resta il paese più letale al mondo per numero di attivisti ambientali uccisi, secondo l’ultimo report pubblicato lo scorso anno dalla ong Global Witness

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