Uno dei migranti a bordo della Sea Watch. Foto: Reuters
Nelle settimane attorno a capodanno abbiamo assistito all’odissea delle navi Sea Watch e Sea Eye, che, con 49 migranti a bordo, hanno atteso per tre settimane l’autorizzazione a sbarcare in un porto europeo. Una vicenda simile a quella che poco prima aveva interessato la Open Arms, con i suoi 308 migranti, e prima ancora la Diciotti, con 190, la Lifeline con 230, l’Aquarius con 630. Tutte situazioni accompagnate da un lungo braccio di ferro fra i paesi dell’UE, e conclusesi con un faticoso compromesso sulla “spartizione” dei migranti. Situazioni che, a seconda dei punti di vista, avranno suscitato rabbia o soddisfazione. Ma che certo hanno anche sollevato perplessità, dubbi sulla consistenza – quando non sulla vera e propria presenza – delle regole europee in materia migratoria.
Le regole, naturalmente, ci sono. E ci sono da quasi trent’anni. Da quando, nel corso degli anni 90, entrarono in vigore prima gli accordi europei di Schengen e poi la Convenzione di Dublino. I primi liberalizzavano la circolazione delle persone fra i paesi membri e istituivano controlli unificati alle frontiere esterne. La seconda fissava le competenze in materia di diritto d’asilo, assegnando al paese di primo arrivo sul territorio dell’Unione la responsabilità di prendere in carico le relative domande.
Nel suo Frontiera Sud, un bel volume appena pubblicato per Mondadori Education, lo storico Simone Paoli ha ricostruito le vicende che portarono all’adozione di quelle norme e alla nascita del cosiddetto “sistema di Schengen”. Paoli mostra come, oltre che a contribuire al funzionamento del mercato unico europeo, i nuovi meccanismi avessero anche scopi di natura prettamente politica. Di fronte alla crescente pressione migratoria sull’Europa del post-guerra fredda, il sistema di Schengen permetteva infatti ai paesi del centro geopolitico dell’UE (Francia, Germania, Benelux) di “scaricare sui membri periferici una quota rilevante dei costi finanziari e politici associati all’attuazione di controlli più rigorosi”. In questo senso fu emblematico proprio il caso dell’Italia, accolta nel sistema solo dopo aver adottato strumenti sufficientemente “rassicuranti” per il controllo delle proprie frontiere. Come gli altri paesi periferici, l’Italia accettò i nuovi meccanismi nella convinzione che gli oneri connessi sarebbero stati abbondantemente compensati dai benefici derivanti dalla partecipazione agli altri aspetti dell’integrazione europea, soprattutto quelli di natura economica.
Non è questa la sede per giudicare se tale previsione fosse corretta. Fatto sta che il sistema, con qualche aggiustamento, resse fino a tutto il primo decennio del nuovo secolo. Pur in presenza di flussi migratori consistenti verso tutti i paesi dell’Unione, in quella fase non si verificarono infatti emergenze di grandi dimensioni. Un dato confermato anche dal numero di domande di asilo presentate nei paesi membri, complessivamente stabile attorno a qualche centinaio di migliaia all’anno. Da questo punto di vista, anche la situazione italiana appariva tutto sommato sotto controllo, con una quantità di domande di asilo stabilmente sotto le 20.000 annue. Una situazione che sembrò ulteriormente consolidata dalla firma del trattato italo-libico del 2008, col quale Tripoli si impegnava a frenare i flussi di migranti verso le coste italiane.
Con lo scoppio della guerra civile in Libia, nel 2011, e il venir meno dei controlli sul Mediterraneo centrale, ripresero le partenze dal Nord-Africa e rapidamente aumentò il numero di sbarchi sulla penisola, oltre che di naufragi e di decessi in mare. Nel 2013 il governo di Roma rispose con l’operazione Mare Nostrum, che ebbe qualche risultato positivo ma con i suoi costi alimentò un dibattito rovente nella politica nazionale. È in questa fase che si acutizzò anche la polemica nei confronti dell’Unione Europea, colpevole di lasciare l’Italia ad affrontare da sola la grave emergenza politica, sociale e umanitaria. La sostituzione di Mare Nostrum con l’operazione europea Triton, nel 2014, sembrò un passo verso la normalizzazione, ma l’intensificazione della guerra civile in Siria fece saltare il banco, provocando l’afflusso di un’enorme ondata di profughi verso l’Europa.
Nel 2015 gli arrivi di migranti irregolari in Europa superarono il milione, 4/5 dei quali giunti dall’Asia sulle coste della Grecia. L’Unione reagì stipulando rapidamente un trattato bilaterale con la Turchia, che affidava al governo di Ankara il compito di frenare il flusso di profughi, e che quasi azzerò gli sbarchi sulle coste greche. A partire da quel momento, il paese maggiormente interessato divenne l’Italia, sul cui territorio giunsero oltre 300.000 profughi fra il 2015 e il 2016. Nel frattempo era cresciuto anche il flusso di profughi che, attraverso la “rotta balcanica”, cercavano di entrare nell’UE dal confine ungherese. Specchio della fase più acuta della crisi fu il vertiginoso aumento delle domande di asilo, che nel biennio in questione superarono i 2,5 milioni, concentrate in Germania (il cui governo decise di farsi carico di quasi la metà delle domande) e, sia pure in misura minore, in Italia, Ungheria e Austria.
Non è un caso che a partire dalla crisi del 2015 l’Austria e l’Ungheria, e con quest’ultima gli altri membri del “gruppo di Visegrad”, abbiano adottato le posizioni più dure fra i paesi europei. Né che dopo le elezioni del 2018 l’Italia abbia fatto lo stesso. D’altronde la crisi ha rafforzato ovunque i partiti anti-immigrati – dal Front National ad Alternative fur Deutschland ai Democratici Svedesi – spingendo tutti i governi a irrigidire il proprio orientamento. Così che sospensioni momentanee del sistema di Schengen sono oggi pratica comune di quasi tutti i paesi membri, mentre i veti contrapposti sembrano aver fatto oramai sfumare la possibilità di riformare le regole di Dublino e di superare il principio del paese di primo arrivo, in discussione dal 2015.
È questo il contesto che ha portato alle vicende della Sea Watche della See Eye. Un contesto caratterizzato da rigide posizioni nazionali, nel quale una politica europea condivisa appare sempre più improbabile. Un contesto destinato ad alimentare contrasti crescenti fra i paesi europei, e che per questo rischia di minacciare la sopravvivenza stessa dell’Unione. In molti, in effetti, individuano nelle elezioni europee del prossimo maggio un momento chiave, temendo una crescita delle forze anti-immigrazione e l’inizio di un vero e proprio processo di dissoluzione dell’UE. Ma anche se non sarà così, il tema è comunque destinato a rimanere caldo a lungo, considerati i numerosi focolai di tensione nelle aree limitrofe all’Europa e le conseguenze di una crisi economica che interessa il vecchio continente da un decennio, e che certo non gioca in favore dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti.