SOCIETÀ

La montagna che preferisco

Basta città, le famiglie vanno a vivere in Appenino è il titolo di un articolo del Sole24ore del 28 novembre 2020 nel quale Ilaria Vesentini riferisce di un bando della Regione Emilia-Romagna per incentivare il trasferimento di nuclei familiari nei paesi e borghi dell’Appennino. È stato un vero successo, scrive, come dimostra il fatto che “uscito a settembre, il bando ha raccolto 2.310 domande ed è andato esaurito”. Tanto che il presidente della Regione, Stefano Bonacini, ha deciso di rifinanziarlo. E di farlo assegnando mediamente 28.500 euro “per sostenere l’acquisto o la ristrutturazione di un’abitazione in uno dei 119 comuni interessati”. Un altro dato interessante, poi, è che l’80% delle domande è stato fatto “da famiglie giovani con figli”.

Questa iniziativa me ne ricorda una analoga, ma con finalità ben diverse, della Regione Campania quando varò il progetto Vesuvia dando un (modesto) contributo di 20.000 euro a chi avesse deciso di lasciare la residenza dai comuni vesuviani verso altre più sicure destinazioni contribuendo anche ad alleggerire la vulnerabilità dell’area.

Per resistere fuggiamo in montagna è il titolo de il manifesto del precedente 19 novembre nel quale Luca Martinelli intervista Luca Mercalli al telefono “dalla sua baita di Vazon, un gruppo di case arrampicate a 1.650 metri sul livello del mare, sulle Alpi Cozie”.

Sempre sfogliando la stampa, il 13 dicembre leggo che I ghiacciai italiani sono in via di estinzione, allarme Marmolada come titola il manifesto un articolo di Luca Martinelli che riporta i dati di una “ispezione” di Legambiente dalla quale risulta che i ghiacciai, “vittime della crisi climatica, nelle Alpi si sono ridotti del 60%”.

Insomma, la Marmolada sta diventando come la Groenlandia che cambia colore. Come il 13 dicembre scrive sul sito di la Repubblica Joseph Cook (Clima, Joseph Cook: la Groenlandia cambia colore) riferendo anche che “Una nuova strana forma di vita si sta sviluppando nella calotta glaciale della Groenlandia, ricoprendo migliaia di chilometri quadrati di candido paesaggio di un'inquietante patina dai toni verdi, rossi, marroni, viola e neri.”

Insomma, molti mutamenti sono in atto e, magari anche un po’ distratti dall’incalzare della pandemia, non ce ne accorgiamo pienamente. Tuttavia, viene da chiedersi ma che succede?

Per la Marmolada e la Groenlandia la risposta è facile: è il mutamento climatico; la temperatura aumenta e il ghiaccio si scioglie. Ma è questo un buon motivo per andare a vivere in montagna, magari nello spazio lasciato libero dagli ex ghiacciai? E mentre su tutta la Terra la popolazione continua ad inurbarsi noi cambiamo territorio? Città, campagna, montagna, c’è un cambio di territorio o addirittura un’inversione di tendenza?

Il territorio. Quando mi trovai a districarmi tra i concetti di spazio, territorio, ambiente in un libro di geografia per le scuole superiori (Dallo spazio al territorio, Loescher 1996) provai a cavarmela scrivendo che in principio era lo spazio poi, dopo la discesa dagli alberi, l’uomo scimmia cominciò a dare un valore – anche economico – al suo spazio: lo territorializzò. E progressivamente cominciò a fare i conti con ciò che gli stava intorno: l’ambiente.

Sul territorio ce n’è letteratura. E su quanto si pensa, si scrive, si dice sul tema, c’è forse un solo sicuro punto di accordo: il territorio non è ciò dove si mettono i piedi.

In ordine di tempo l’ultima occasione di riflessione è offerta dal libro di Alberto Magnaghi Il principio territoriale (Boringhieri, 2020) la cui uscita, con i suoi contenuti, ha alimentato un interessante dibattito che ha visto tra i “partecipanti”: Piero Bevilacqua e Alberto Asor Rosa.

Magnaghi è noto per essere quello che si definisce un territorialista, vale a dire uno studioso e un operatore del territorio. Bevilacqua gli ha dedicato una recensione, Un territorio sulla carta, su “il manifesto” del 2 dicembre2020, nella quale manifesta perplessità su alcune posizioni di Magnaghi. 

Ne riporto qualche passaggio che più mi sembra coerente con l’argomento sul quale sto riflettendo: “Magnaghi ha idee teoricamente ineccepibili su ciò che significa territorio. Esso non è la natura, sia pure violata dalla civiltà industriale, da riportare alle sue condizioni primigenie, ma “un neoecosistema vivente”, il frutto di una lunga storia delle popolazioni che hanno plasmato il loro habitat secondo bisogni e culture locali. “Città, colline terrazzate, campagne lavorate, infrastrutture, boschi coltivati hanno metabolismi che si trasformano nelle successive civilizzazioni, ma pur sempre metabolismi che connotano le strutture viventi”.” Solo afferrando tale realtà, evitando illusioni ingegneristiche di riparazione dei guasti, o sogni di palingenesi ecologiche, si imbocca la strada giusta per un'opera di cura del territorio devastato dallo sviluppo. Una strada la cui realizzazione, secondo Magnaghi, sta in un “autoinvestimento sociale da parte di sistemi socioeconomici locali e delle loro grandi e inesplorate energie latenti”. Proseguendo nella sua lettura Bevilacqua scrive che “per attuare una tale strategia l'autore propone un movimento di contro esodo da attuarsi attraverso il “ritorno alla terra” il “ritorno all'urbanità”, cioè a una vita urbana vivibile, il “riabitare la montagna” e infine “ il ritorno a sistemi socio-economici locali”. 

Queste “proposte” che cita Bevilacqua mi aiutano a tornare da dove sono partito, in particolare su quello che più attira la mia attenzione e mi induce a riflettere. Mi riferisco a Luca Mercalli che oltre all’intervista alla quale facevo riferimento all’inizio, approfondisce il suo tema in un libro per Einaudi il cui titolo Salire in montagna già chiarisce i contenuti sintetizzati in copertina: “La montagna è una delle vie da percorrere per sfuggire al riscaldamento globale. Insieme alle tecnologie sostenibili, all'efficienza energetica e a una vita piú contemplativa e meno competitiva”.

Io sono un cittadino di mare essendo nato e vivendo a Napoli. Amo molto la montagna alpina e appenninica, ma, pur in visione di una popolazione che tendere a diminuire e ad invecchiare ho forte perplessità sulla generale validità delle soluzioni proposta da Mercalli.

La montagna – secondo Luca Mercalli – è una delle vie da percorrere per sfuggire al riscaldamento globale. Ma, attenzione, dice Mercalli nell’intervista a Martinelli, “salire in montagna non è un richiamo generico che farà sì che un sacco di gente raggiungerà la montagna contribuendo così a rovinare l’ambiente…è certò però che in montagna c’è posto, perché ne abbiamo liberato tantissimo in questi cinquant’anni di spopolamento”.

Con parole mie si può dunque dire che c’è, soprattutto per l’ambiente montano, una capacità di carico che deve essere rispettata se non si vogliono riproporre ad altre altitudini i disastri di pianura.

La montagna dunque. Ma bisogna intendersi sul “riabitare la montagna” che propone Magnaghi, sul “Salire in montagna” di Mercalli e le presenti, passate e future tendenze demografiche. 

Bisogna cioè ricordare che la montagna non è solo quella alpina, ma anche quella appenninica e che c’è spopolamento e spopolamento. Per dire che lo spopolamento dell’appennino ha avuto modalità qualitative e quantitative molto diverse. È soprattutto dalle aree interne dell’appennino meridionale che è cominciato e continuato il fenomeno migratorio. Ed è soprattutto il Mezzogiorno che vede diminuire la sua popolazione: per riduzione della natalità, ma anche per non interrotti flussi migratori dei giovani verso altre mete.

Una tendenza che va interrotta. Non solo frenandola, ma anche incentivando i ritorni. Ritorni verso la terra il cui lavoro può e deve diventare attrattivo se meno faticoso e più remunerativo. Ma ritorni su quale territorio? Pianura, collina, montagna? Quali? In quali regioni le une e/o le altre? Queste domande hanno bisogno di risposte e di risposte convincenti se si vuole raggiungere l’obiettivo.

Nella sua recensione Bevilacqua scrive che nel libro di Magnaghi si fa fatica a trovare “dietro le parole, ad esempio dietro il termine territorio, una realtà geografica determinata, luoghi storicamente riconoscibili, realtà sociali, comunità viventi nelle loro concrete condizioni.  Allorché, ad esempio, Magnaghi tratta di ritorno alla terra, di questa c'è solo la parola. Non si intravedono ambiti materiali, superfici agricole, colture, forme dei campi, organizzazione del lavoro, tipi di abitati, popolazioni.”.

Così è. E non solo nel libro, ma in tutte le verbalmente espresse tesi di ritorni. 

Mercalli sostiene che la salita in montagna richiede una risistemazione dell’ambiente abbandonato e questo darà lavoro a lungo per artigiani e quanti altri potranno essere impegnati in quest’opera di risistemazione.

Va benissimo. Perché se vogliamo sposare questa causa anche nel Mezzogiorno dobbiamo ricordare che l’appennino meridionale dall’Abruzzo a quello sfasciume pendulo sul mare come Giustino Fortunato definiva l’estrema punta della Calabria, è montagna idrogeologicamente dissestata e sismica. Il che significa che per il suo riassetto in termini di vivibilità dell’ambiente e sicurezza del territorio occorreranno plotoni di ricercatori, sismologi, ingegneri, architetti, artigiani eccetera che ne avranno di lavoro da fare. E da fare utilmente non solo perché immediatamente potranno trattenere le intelligenze e la manodopera che tende ad andarsene. Ma anche perché la risistemazione in termini di recupero della vivibilità e della sicurezza, preparerà la strada ai ritorni.

Questa è la montagna che mi piace di più.

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