SOCIETÀ

La neutralità del Brasile, la Cina e le irritazioni dell'Occidente

L’abbraccio sempre più esplicito tra il presidente brasiliano Lula e il suo omologo cinese Xi Jinping sta creando non pochi malumori nelle cancellerie occidentali, a partire dalla Casa Bianca. L'obiettivo dichiarato del viaggio a Pechino del presidente brasiliano (accolto con tutti gli onori la scorsa settimana nella Grande Sala del Popolo, in piazza Tiananmen) era “rafforzare i legami commerciali tra i due paesi e parlare della guerra in Ucraina”. Aspirazione legittima, dal momento che la Cina resta il più grande partner commerciale del Brasile, con un commercio bilaterale che nel 2022 ha superato i 171 miliardi di dollari, con un aumento su base annua del 4,9%. Ma l’orizzonte di Lula appare ben più ampio: riportare il Brasile in una posizione primaria sullo scenario internazionale, dopo la parentesi buia di Bolsonaro, mantenendo una sostanziale “neutralità” sia rispetto ai mercati sia per quel che concerne gli assetti geopolitici. Neutralità intesa come mano libera, come libertà d’azione e di scelta. «Rientro in Brasile con l’assoluta certezza che stiamo tornando alla civiltà», ha dichiarato Lula ai giornalisti al termine del suo viaggio in Cina e negli Emirati Arabi (dove ha firmato accordi commerciali per complessivi 62,5 miliardi di real brasiliani, oltre 11 miliardi di euro, nei settori più disparati, dalla tecnologia all’innovazione, dall’agricoltura al cambiamento climatico, dagli investimenti in infrastrutture allo sviluppo dei satelliti Cbers-6). «Il governo sta facendo quello che è obbligato a fare: aprire il Brasile al mondo e convincere il mondo ad aprirsi al Brasile». Ma Lula, a proposito del conflitto in Ucraina, vuol proporsi anche come “mediatore” alla ricerca di una tregua che, stando al senso delle parole dello stesso presidente brasiliano, né gli Stati Uniti, né l’Unione Europea stanno perseguendo, con l’invio continuo di armi a Kiev («devono smettere di incoraggiare la guerra», ha detto). «Stiamo cercando di formare un gruppo di paesi che non hanno alcun tipo di coinvolgimento con la guerra. Un “peace group” che possa parlare con la Russia e l’Ucraina, ma anche con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, per convincere la gente che la pace è il modo migliore per stabilire un processo di conversazione. Penso che dobbiamo sederci su un tavolo e dire “basta, iniziamo a parlare”, perché la guerra non ha mai portato e non porterà mai alcun beneficio all’umanità». Non è una novità per il “gigante” sudamericano: «Il Brasile ha sempre avuto una posizione come pacificatore, come mediatore», ha commentato sul Guardian Guilherme Casarões, professore di relazioni internazionali presso l’Università Fundação Getulio Vargas, a Rio de Janeiro, uno dei più autorevoli istituti di ricerca al mondo.

L’irritazione della Casa Bianca

L’idea di “pace” di Lula è opinabile sotto diversi aspetti: mette Russia e Ucraina sullo stesso piano come responsabili per l’avvio del conflitto («due nazioni hanno deciso di entrare in guerra»), propone di uscirne con la cessione della penisola della Crimea alla Russia («Zelensky non può volere tutto»), mentre a Putin rimprovera soltanto l’aver invaso ulteriore terreno dell’Ucraina, cosa che il leader russo «dovrà riconsiderare». Opinabile soprattutto da parte ucraina e americana, che hanno immediatamente respinto al mittente qualsiasi ipotesi in tal senso («Il Brasile sta ripetendo a pappagallo la propaganda russa e cinese senza guardare ai fatti», ha replicato il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale John Kirby), irritati dalla visita di Lula alla sede di Huawei Technologies (sanzionata e bandita dagli Stati Uniti in quanto ritenuta minaccia alla sicurezza nazionale) e dal fatto che appena terminato il viaggio in Cina il presidente brasiliano abbia ricevuto, a Brasilia, il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov, prima tappa di un tour che lo porterà in Venezuela, a Cuba e in Nicaragua, diciamo lo zoccolo duro del sentimento anti-americano in Sudamerica. È evidente che, partendo da queste basi, costruire un cessate il fuoco è praticamente impossibile. Da segnalare anche una successiva, parziale marcia indietro di Lula, che dopo le critiche ricevute ha condannato più esplicitamente «la violazione dell’integrità territoriale dell'Ucraina da parte della Russia».

Ma quel che resta interessante è la “postura” che Lula sta tentando d’imprimere al Brasile: sempre più indipendente e autoreferenziale («vogliamo avere relazioni positive con tutti i paesi»), senza alcuna sudditanza, ma assai in sintonia con le istanze dei paesi del Sud del mondo. Quel “Sud globale”, di cui il Brasile è parte integrante, che vuole assolutamente smarcarsi dall’abbraccio, percepito come oppressivo, degli Stati Uniti d’America. E che puntano su una sempre maggiore autonomia dell’alleanza “BRICS” (acronimo dei paesi che ne fanno parte: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Non è un’alleanza di facciata: a dirigere la “New Development Bank BRICS”, istituzione finanziaria con sede a Shangai, nata nel 2014 dagli accordi tra i paesi membri proprio per fornire meccanismi di prestito alternativi dalle strutture del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, è stata chiamata pochi giorni fa proprio Dilma Rousseff, ex presidente del Brasile dal 2011 al 2016, fedelissima di Lula. Per intuire la “mission” della NDB basta leggere tra le righe del comunicato ufficiale sulla nomina di Roussef diffuso dall’agenzia di stampa brasiliana Agência Brasil: «La nuova presidente della Banca BRICS dovrà affrontare due grandi sfide: promuovere progetti legati all’ambiente e aggirare l’impatto geopolitico della rappresaglia occidentale contro la Russia, uno dei partner fondatori». Un patto di mutua, e palese, assistenza. Ma c’è di più. Il presidente brasiliano s’è messo in testa un’idea rivoluzionaria: sottrarre al dollaro statunitense il centro della scena della finanza mondiale. «Ogni sera mi chiedo perché tutti i paesi debbano basare il loro commercio sul dollaro», si è chiesto Lula intervenendo a Shangai, giovedì 13 aprile, all’insediamento di Dilma Rousseff alla presidenza della Banca BRICS. «Perché non possiamo fare trading sulla base delle nostre valute? Chi è stato a decidere che il dollaro era la valuta di riferimento dopo la scomparsa del “gold standard”, del sistema aureo? Perché una banca come quella dei BRICS non può avere una moneta per finanziare le relazioni commerciali tra Brasile e Cina, tra Brasile e altri paesi»? Il progetto della “de-dollarizzazione” è musica per le orecchie di Pechino (lo yuan cinese è sempre più usato nelle transazioni). Ma attenzione, è soltanto la punta dell’iceberg. Perché non ci sono soltanto India e Sudafrica, oltre alla Russia com’è ovvio. Si sta formando una coda per entrare nell’alleanza BRICS: Algeria, Argentina e Iran hanno già presentato domanda, mentre un “interessamento” è stato mostrato da Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Afghanistan e Indonesia. Altre pretendenti sono Emirati Arabi Uniti, Kazakistan, Nicaragua, Nigeria, Senegal e Thailandia, tutte nazioni che hanno mandato i loro ministri delle finanze all’ultima riunione del “dialogo sull’espansione dei Brics”, che si è svolta l’anno scorso. Scrive la rivista Geopolitical Economy: «La campagna globale di de-dollarizzazione sta guadagnando slancio, mentre i paesi di tutto il mondo cercano alternative all’egemonia del dollaro USA. Cina e Russia già commerciano nelle loro valute. Pechino e il Brasile hanno anche perso il dollaro nel commercio bilaterale. Gli Emirati Arabi Uniti stanno vendendo alla Cina il suo gas in yuan, attraverso una società francese. Le nazioni del sud-est asiatico dell’ASEAN stanno de-dollarizzando il loro commercio, promuovendo sistemi di pagamento locali. Il Kenya sta acquistando petrolio del Golfo Persico con la propria valuta. Anche il quotidiano Financial Times ha riconosciuto che sta emergendo un mondo valutario multipolare».

La realpolitik del Sud globale

E la prova è anche nella “percezione”, a livello globale, della guerra scatenata dalla Russia in Ucraina. Sono 45 le nazioni che hanno imposto sanzioni a Mosca (e 29 quelle che forniscono armi all’Ucraina): nessuna dall’Africa (dove massicci sono gli investimenti russi e cinesi), nessuna dall’America Latina. Non “a favore” della Russia, ma nemmeno apertamente “contro”, per non incrinare rapporti vitali per le fragili economie dei continenti. Perché quel conflitto sta producendo anche una “scissione economica”, la contrapposizione tra due sistemi: quello occidentale, che difende un ordine liberale sotto la bandiera del neocapitalismo, e quello proposto in primis dalla Cina (e dalla Russia) dove l’economia è libera di svilupparsi senza dover essere necessariamente legata alla difesa della democrazia. Come sostiene, sulle pagine di Euronews, Alexander Stubb, ex primo ministro finlandese, attuale vicepresidente della Banca Europea per gli Investimenti: «L’Europa e gli Stati Uniti sono in una sorta di bolla, convinti che l’invasione su larga scala dell’Ucraina sia una guerra mondiale. Eppure, due terzi della popolazione mondiale vivono in paesi che non hanno condannato attivamente la Russia. Siamo troppo arroganti, troppo paternalisti e troppo moralisti. L’Occidente deve rendersi conto di non essere più il centro del mondo».

In questo crescente dualismo si colloca il Global South, inteso come un insieme di nazioni che sostengono un’economia non ideologica, ma pragmatica, quasi un ritorno alla realpolitik di bismarckiana memoria. Assai critiche verso le politiche di austerity imposte dal Fondo Monetario Internazionale (considerato alla stregua di un “braccio armato” delle politiche neoliberiste), e pronte al dialogo con chiunque sia in grado di offrire partnership e investimenti alle migliori condizioni. Secondo Toru Ito, docente di Relazioni Internazionali presso l’Accademia Nazionale della Difesa del Giappone, esperto di sicurezza dell’Asia meridionale, chiamato ad analizzare il prossimo vertice del G7 (il forum dei 7 paesi più industrializzati: Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia e Regno Unito) che si terrà dal 19 al 21 maggio a Hiroshima, non sarà semplice ottenere il sostegno di questi paesi, molti dei quali non si sono schierati con gli Stati Uniti e i loro alleati sulla guerra della Russia in Ucraina, a meno che non ci siano per loro chiari benefici: «Per alcuni paesi del Sud del mondo la situazione più favorevole resta quella di mantenere i legami sia con il campo guidato dagli Stati Uniti sia con il blocco Cina-Russia, per godere il più possibile dei benefici di entrambe le parti. Compito del G7 sarà tentare di impedire che si avvicinino troppo alla Cina e alla Russia».

Dunque la parola d’ordine sarà sempre più “equilibrio”. La stessa che sta tentando di applicare il presidente del Brasile, nel suo continuo tentativo di smarcarsi da obblighi e imposizioni (come nella “guerra dei chip” tra Stati Uniti e Cina), tornando ad abbracciare la politica di Pechino (dopo lo stop imposto da Bolsonaro) senza tuttavia arrivare a incrinare i rapporti con Washington, che resta comunque un partner fondamentale per Brasilia nella promozione della sicurezza reciproca e del rispetto dei diritti umani, oltre che secondo mercato d’esportazione. Lula e i suoi consiglieri si fidano poco di Washington (c’è chi insinua che ci sia stato lo zampino della Casa Bianca dietro il suo arresto, nel 2018), ma i temi di condivisione non mancano: difesa della democrazia, argine al dilagare dell’estremismo di destra (vedi Trump e Bolsonaro), lotta ai cambiamenti climatici. Riuscirà Biden a offrire nuovi spazi di condivisione, di collaborazione, magari su temi poco “commerciali” ma assai sensibili per il Brasile, come la fame, la lotta alla povertà, l’inclusione? E Lula riuscirà a mantenere la giusta distanza, per il bene del Brasile?

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