Thomas Edison non era un dormiglione, riteneva il sonno "uno spreco di tempo criminale e un'eredità di quando eravamo nelle caverne", riposava al massimo quattro ore e pretendeva lo stesso dai suoi dipendenti che metteva alla prova continuamente e sin dal principio, organizzando persino colloqui di assunzione nel cuore della notte. Il suo atteggiamento ha contribuito ad alimentare "una mitologia dell'innovatore iperattivo e insonne tuttora viva in ambienti come quelli della Silicon Valley". Chissà cosa direbbe e farebbe oggi. In quest’epoca di attivismo perpetuo e insonnie diffuse in buona parte alimentate dall'aumento esponenziale dei dispositivi elettronici, probabilmente, in piena notte, tempesterebbe i collaboratori di messaggi su Whatsapp e le sue ore di riposo si ridurrebbero ulteriormente.
Prendo lo smartphone, lo appoggio sul comodino, non riesco a dormire e lo riprendo, do un'altra occhiata alle notifiche, scrollo il feed, ancora non mi sento pronto a dormire, cerco una serie tv su una delle tante piattaforme a disposizione e inizio una sessione di binge watching. Ecco, in breve, come molti di noi trascorrono la notte. Non siamo più soli nel nostro letto con gli occhi sbarrati, non contiamo le pecorelle, la tecnologia non ci lascia, non si spegne e, anzi, trama contro il nostro riposo. Del resto lo stesso Reed Hastings, amministratore delegato di Netflix, ha ammesso: "Il nostro principale concorrente è il sonno. Ed è un serbatoio di tempo molto lungo".
Notizie, notifiche, messaggi, richieste di amicizia non conoscono orari né pause. Di più, siamo talmente immersi in questo universo digitale da mettere in atto comportamenti inconsapevoli: se una persona accanto a me guarda il suo smartphone quasi sicuramente, dopo pochi secondi, lo farò anch'io. L'utilizzo della tecnologia obbedisce a una legge descritta già a fine Ottocento dal sociologo Gabriel Tarde: si tratta di imitazione, è l'effetto dell'influenza reciproca. E infatti "noi scegliamo di usare le tecnologie meno spesso di quanto pensiamo". Crediamo si tratti di una decisione volontaria ma il più delle volte imitiamo il comportamento di chi ci circonda. Prendiamo in mano il telefono in media 96 volte al giorno, c'è chi arriva a 150: lo facciamo continuamente e soprattutto "perché, guardando gli altri, ci viene in mente che anche noi potremmo avere qualche notifica in sospeso" e anche noi, forse, dovremmo mostrarci impegnati. Dunque, l'uso della tecnologia e, “a maggior ragione, di tecnologie pervasive come lo smartphone, non è necessariamente legato a scelte consapevoli". Partendo da queste considerazioni, Massimiano Bucchi, docente di Scienza, tecnologia e società all'Università di Trento, esplora l'universo dell'innovazione osservando il presente e ritrovando, al tempo stesso, molte tracce storiche all'origine di trasformazioni epocali: la stessa privazione di sonno, per lo psicologo Rubin Naiman dell'Università dell'Arizona, viene da lontano, dalla rivoluzione industriale, che strappò il sonno dal suo posto per addomesticarlo.
“ Il nostro sguardo sulla tecnologia è spesso miope, anzi, strabico. Si focalizza solo sulla novità tecnologica e dimentica l'altra metà della questione: gli esseri umani Massimiano Bucchi
Il libro Confidenze digitali, edito da Il Mulino, presentato recentemente a Padova in occasione del Cicap Fest, nel titolo anticipa la sostanza: alla calda intimità di una confidenza sussurrata a un caro amico affianca un termine più freddo e tecnico, scatenando in chi legge un primo cortocircuito di senso. Ma oggi funziona così, lo sappiamo bene, in fondo non ci stupisce. I confini sono sfumati, siamo ormai abituati a ricevere baci e abbracci virtuali da perfetti sconosciuti, a commento di un post o di una storia di Facebook o Instagram in cui sforniamo una torta preparata seguendo le indicazioni di un tutorial che ci regala un'illusione facendoci sentire per un attimo esperti pasticceri: oltre ogni competenza, tre minuti di video su YouTube possono davvero trasformarci in Iginio Massari? E chi ci invia baci e applausi con gli emoji che ne sa veramente di noi?
Il saggio di Bucchi, agile e ricco di aneddoti e curiosità, rintraccia successi, fallimenti, vizi e virtù dell'innovazione tecnologica, cercando di ripiantare con cura i semi di prudenza, giustizia, temperanza, fortezza (già celebrate da Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova). C’è una grande e profonda differenza tra novità e innovazione, non tutto quello che viene lanciato e presentato come una rivoluzione resterà nel tempo: la buona innovazione è fatta di pazienza, ricerca, tentativi, revisioni. "Il nostro sguardo sulla tecnologia è spesso miope, anzi, strabico. Si focalizza solo sulla novità tecnologica e dimentica l'altra metà della questione: gli esseri umani, il loro modo di utilizzare la tecnologia e le relative conseguenze".
Per ogni innovazione, quindi, esistono non solo possibili applicazioni ma anche conseguenze. Vale oggi, per questo nostro tempo ipertecnologico e valeva prima. Ogni epoca ha i suoi processi e le sue svolte: pensiamo alla storia di Samuel Morse, che a metà Ottocento da artista si trasforma in inventore (brevetta il telegrafo e il sistema di comunicazione a distanza che porta il suo nome) traghettando la società nell'epoca del 'sempre collegato' (oggi, sempre connesso), o a quella di Richard Douglas 'Dick' Fosbury, l'atleta statunitense che trasforma il salto in alto adottando una nuova tecnica, grazie alla quale diventa campione olimpico nel 1968. La buona innovazione richiede tempo per nascere e poi per essere assorbita, compresa, elaborata, metabolizzata: "Il sociologo americano William Ogburn, nel 1922, - racconta Bucchi - parlava a questo proposito di ritardo culturale: ogni innovazione non ha bisogno solo di una tecnologia che funzioni ma anche di un contesto in grado di metabolizzare l'innovazione per permettere di raccoglierne i benefici, limitando gli impatti negativi".