SOCIETÀ

Il nuovo Leviatano. Le sfide politiche della crisi climatica

Viviamo nell’Antropocene, l’epoca umana. La presenza e l’attività dell’uomo sono divenute, nei secoli, sempre più pervasive, al punto da assumere un ruolo assolutamente primario nel modellare la natura e da trasformarlo, poco a poco, in una vera forza geologica.

La crisi climatica è l’involontario prodotto di questa prolungata ed incauta attività di costruzione di nicchia, il frutto accidentale della nostra corsa verso il benessere. Oggi, questo evento imprevisto da noi stessi generato domina la nostra comune esistenza, permeando la realtà e minacciandoci da ogni parte.

Ignorare questo stato di cose, decidere di non agire, non è (più) un’alternativa possibile: la questione climatica non riguarda soltanto l’ambiente – non esiste in una sfera lontana dal nostro presente –, ma ogni dimensione della nostra vita. Bisogna, pertanto, che impariamo a concepirla come una questione innanzitutto politica.

Proprio questo – la natura politica del riscaldamento globale – è il punto da cui si dipana la riflessione sviluppata nel volume Il nuovo Leviatano. Una filosofia politica del cambiamento climatico, scritto da due docenti universitari statunitensi, Geoff Mann e Joel Wainwright, e pubblicato di recente da Treccani (2019, pp. 350, € 22). I due autori si propongono di dare risposta ad un quesito centrale, che si fa di giorno in giorno più pressante: l’attuale ordinamento politico ed economico – lo Stato-nazione capitalistico – sarà in grado di affrontare una sfida di proporzioni globali come la catastrofe climatica?

Sulla scorta di un nutrito armamentario filosofico – che si muove agilmente tra Hobbes, Marx, Gramsci, Foucault, e che s’inserisce nella scia della riflessione filosofico-politica di sinistra –, si riflette su alcune traiettore che, in futuro, ci si potrebbero prospettare. L’alternativa più plausibile è che presto, con l’aumentare dell’insicurezza e del conseguente bisogno di protezione di fronte ad una crisi che sarà al tempo stesso ambientale, sociale, economica, si instauri una sorta di “sovranità planetaria” non democratica, la quale otterrà legittimazione e consenso proprio in nome della sicurezza e della salvaguardia della vita sulla terra.

Si profila cioè il “Leviatano climatico”, una formazione sociale basata sul modello capitalistico e imperniata sulla sovranità, che tenterà di preservare il più possibile l’attuale paradigma della crescita cercando all’interno di esso una soluzione alla crisi imminente. Il realizzarsi di un tale metodo di governo, ci avvertono gli autori, è al momento molto verosimile. Infatti, anche chi è consapevole del fatto che i problemi ambientali sono il prodotto intrinseco del capitalismo, e non una mera “esternalità”, e che l’attuale sistema di produzione e consumo andrebbe abbandonato – o, quanto meno, radicalmente modificato – sono privi della speranza in un cambiamento sostanziale, e credono che un reindirizzamento del capitalismo verso una “svolta verde” sia, in effetti, l’unica soluzione praticabile.

Per il Leviatano climatico, il capitalismo non costituisce un problema: esso, piuttosto, è considerato parte della soluzione. Ma ciò di cui non si tiene conto è il limite intrinseco del capitalismo, ciò che costituisce la sua debolezza e che potrebbe perfino portarlo al collasso: si tratta del meccanismo perverso che lo anima. Il suo dinamismo, infatti, si spiega con una costante necessità di circolazione e accumulo del capitale; il circolo di produzione e consumo che da questo movimento prende avvio si autoalimenta, generando così una ininterrotta espansione del mercato e un continuo bisogno di risorse. Il fondo a cui attingere è, chiaramente, la natura, che viene considerata alla stregua di un pozzo senza fondo da sfruttare fino all’ultima goccia. Il capitalismo, inoltre, è un sistema intrinsecamente basato sulla disuguaglianza: e proprio quest’ultima esso perpetua, nella forma non solo di uno squilibrio tra uomo e natura, ma anche di iniquità tra uomo e uomo. Il capitalismo incoraggia la disparità tra ricchi e poveri; dà molto ai primi e poco ai molti, e l’organizzazione sociale che ne deriva costituisce un ulteriore ostacolo alla conversione dell’economia e della politica verso forme più sostenibili.

Se ad un primo sguardo tale analisi potrebbe sembrare astratta, lontana dal reale, essa si rivela in realtà estremamente attuale: il Leviatano climatico, in un certo senso, è già tra noi. Già esiste, infatti, un organo che cerca di imporsi – almeno per quanto riguarda la gestione del riscaldamento globale – come autorità planetaria: si tratta delle annuali COP (Conferences of Parties) patrocinate dall’ONU, durante le quali un piccolo numero di Stati effettivamente potenti cerca di imporre ai più deboli una linea d’azione da seguire, nel rispetto dei princìpi della sovranità e dell’economia liberista. Finora, i provvedimenti adottati si sono mostrati largamente inefficaci: a livello globale, infatti, si è deciso di non mettere in discussione l’imperativo del libero mercato, e di lasciarlo agire senza alcun vincolo nella speranza che esso, con la sua promessa di “auto-regolazione”, corregga quel “fallimento di mercato” che è la crisi climatica.

Insomma, si è scelto di preferire la mitigazione all’adattamento, nella convinzione che qualche piccola correzione nell’ingranaggio ci avrebbe protetto da qualsiasi sconvolgimento, da qualsiasi rinuncia significativa al nostro confortevole tenore di vita. Ma dobbiamo ora renderci conto del fatto che mitigazione e adattamento non sono due soluzioni alternative: l’adattamento non è un’opzione di serie B, da adottare nel caso in cui la prima non dovesse riuscire. Le due strategie devono andare di pari passo.

Quali vite pagheranno il costo dell’adattamento a un pianeta surriscaldato? G. Mann, J. Wainwright

E, soprattutto, il primo adattamento da mettere in pratica è un adattamento del politico: bisogna pretendere che la questione della giustizia climatica – “quali vite pagheranno il costo dell’adattamento a un pianeta surriscaldato?” – assuma una posizione primaria nell’affrontare la crisi climatica globale. Non possiamo sperare di superare questo momento senza prima mettere in atto una vera e propria rivoluzione culturale, che ci consenta di superare la logica della dominazione, così radicata nell’antropocentrismo tipico del pensiero occidentale.

È evidente come ad un problema di così vasta portata non sia possibile rispondere senza un’autentica e concertata cooperazione internazionale: lo Stato-nazione è, perciò, completamente inadeguato per questo compito. Le rimanenti possibilità, allora, sono solo due: o una sovranità planetaria di stampo dittatoriale, non democratica, che garantisca la sicurezza a discapito della libertà, o un paradigma politico radicalmente nuovo, che gli autori definiscono – velandolo di un alone di mistero – “X climatica”.

(Joel Wainwright discute della "X climatica" nel corso di una trasmissione radiofonica)

Tale approdo non si configura – come sottolineano gli stessi autori – come una proposta politica strutturata: è, piuttosto, l’apertura di un varco di possibilità inedite. La crisi climatica non è un problema solamente ambientale: è una crisi dell’immaginazione, una crisi dell’ideologia; è “il risultato di un’incapacità nel concepire alternative all’utilizzo di muri, armi e finanza come strumenti per affrontare i problemi che incombono all’orizzonte”. A tutto ciò bisogna contrapporre un contesto ideologico alternativo, basato sull’uguaglianza, sulla solidarietà, sulla capacità di riconoscere la dignità dell’Altro, del radicamente altro da sé. Capitalismo e Stato-nazione, liberismo e sovranità, non sono le sole scelte a disposizione.

Viviamo in un momento di confine. Ci troviamo ad affrontare un grosso rischio, è certo; ma in esso si cela anche un’opportunità. Se saremo capaci di immaginare traiettorie alternative rispetto ai percorsi già tracciati, forse si apriranno, davanti a noi, nuove possibilità d’azione.

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