SOCIETÀ

La pandemia in carcere: il difficile bilanciamento tra salute e sicurezza

Al 30 marzo 2020, secondo i dati del ministero della Giustizia, le presenze in carcere ammontano a 57.846 individui, a fronte dei 50.754 posti di capienza regolamentare: più di 7.000 presenze di troppo, dunque.

Il sovraffollamento degli istituti penitenziari è, nel nostro Paese, un’annosa questione, che ha dato pensiero a generazioni di politici, magistrati e tecnici. Di fronte alla dilagante propagazione della pandemia da Covid-19, essa si ripropone con urgenza: il governo, nel tentativo di arginare l’emergenza sanitaria, decide di isolare, per quanto possibile, le carceri, prendendo misure precauzionali come il trasferimento dei colloqui su piattaforme telematiche e la revoca temporanea dei permessi premio e dei regimi di semi-libertà.

La conflagrazione è pressoché inevitabile: il 7 marzo, prima ancora dell’approvazione del decreto legge (che entrerà in vigore il 17 marzo), molte carceri italiane sono teatro di rivolte, in alcuni casi degenerate in tragedia. I detenuti che perdono la vita sono dieci: molti di questi sembrano essere morti per overdose dopo aver rubato farmaci nelle infermerie degli istituti fuori controllo.

A far esplodere la situazione è una inedita mescolanza di problemi vecchi e nuovi: ai “soliti” disagi si aggiungono, questa volta, la paura per il virus e l’incertezza delle informazioni che filtrano dall’esterno. Di fronte a notizie frammentarie e confuse, molte persone detenute hanno temuto di perdere alcuni dei diritti che, ancor più nella vita carceraria, risultano essenziali, come la possibilità di coltivare le relazioni con i familiari, ed è insorta lasciandosi trascinare dal terrore di un’esclusione ancora più completa dal mondo “di fuori”.

Il precipitare degli eventi è stato sicuramente facilitato proprio dal problema del sovraffollamento, che affligge quasi tutti gli istituti di pena italiani: si pensi solo a quanto sia difficile, laddove si debbano condividere spazi angusti con tre o quattro persone, riuscire a mantenere le distanze di sicurezza consigliate. Le soluzioni alternative alla pena detentiva sono molte, in realtà, ma – come ha denunciato, ad esempio, il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma – vengono adottate troppo raramente, anche laddove ce ne sarebbe la concreta possibilità.

Il governo, frattanto, sembra essersi rivolto in questa direzione, puntando su un potenziamento dello strumento dell’arresto domiciliare, in modo da alleggerire il peso che grava sulle carceri in questo momento di difficoltà. La situazione è in lento miglioramento: per un concorso di cause (tra cui il drastico calo dei reati, il trasferimento dei detenuti più debilitati per tutelarne lo stato di salute, e il maggior ricorso a permessi di semilibertà e a misure di detenzione domiciliare), dall’inizio della pandemia ad oggi le presenze in carcere sono calate di circa 5.000 unità. Ma si tratta di un risultato non ancora sufficiente, che lascia numerosi nodi irrisolti.

 

Di tutto questo ragioniamo con il prof. Marcello Daniele, ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Padova. Professore, come è possibile far fronte, in questa situazione d’emergenza, alla questione del sovraffollamento carcerario? Quali sono le strade percorribili?

“Il rischio di contagio, particolarmente alto nelle carceri che, come quelle italiane, si trovano in condizioni di sovraffollamento, pone una difficile sfida: bilanciare in modo equilibrato il diritto costituzionale alla salute, di cui anche i detenuti devono godere, con la tutela della sicurezza pubblica, la quale potrebbe essere messa a rischio da un numero eccessivamente alto di scarcerazioni.

Al momento il governo l’ha affrontata principalmente puntando su un istituto giuridico che opera nel nostro sistema già dalla fine del 2010: l’esecuzione domiciliare, che consente alle persone condannate ad una detenzione non superiore ad un anno e mezzo di scontare la pena presso la propria abitazione. Ci sono dubbi, però, sulla reale efficacia di una soluzione del genere, e il principale di questi risiede nel sorprendente gap tecnologico che, ancora nel 2020, continua a contraddistinguere la giustizia nel sistema italiano. Il d.l. n. 18 del 2020 ha, infatti, subordinato l’applicazione dell’esecuzione domiciliare, quando la pena da eseguire non sia superiore a sei mesi, all’impiego delle cavigliere elettroniche. L’idea, di per sé, non è sbagliata, considerata l’efficacia di tale forma di controllo. Peccato, però, che nel nostro ordinamento le dotazioni delle cavigliere siano, allo stato, ampiamente insufficienti rispetto al bisogno. Tale carenza, se persisterà, impedirà la scarcerazione di non pochi detenuti, e c’è da auspicare che proprio l’epidemia sia l’occasione per rimediarvi una volta per tutte. Anche perché, se il virus prima o poi sparirà, il sovraffollamento delle carceri, senza interventi incisivi, rimarrà, con buona pace della Corte europea dei diritti dell’uomo che, nel 2013, lo aveva fortemente stigmatizzato con l’ormai storica sentenza Torreggiani. Ed è chiaro che, a fronte della incapacità endemica del sistema di fronteggiarlo con l’edilizia carceraria, la pena domiciliare con il controllo elettronico rappresenta uno strumento che, anche per il futuro, risulterà decisivo”.

Dobbiamo bilanciare in modo equilibrato il diritto costituzionale alla salute con la tutela della sicurezza pubblica Prof. Marcello Daniele

Le misure di contenimento adottate per arginare il virus, tuttavia, non hanno conseguenze soltanto in ambito giuridico e sanitario: uno sconvolgimento nella vita quotidiana del carcere rischia di avere conseguenze pesanti, come hanno mostrato le rivolte di marzo. È dunque necessario tutelare anche il benessere psicologico di chi sta scontando una pena detentiva: come è possibile preservare, anche in un momento di assoluta urgenza, la dignità umana di queste persone?

“Anche a questo riguardo, in un momento come quello attuale non possiamo che rimetterci alla tecnologia. Il governo ha, in particolare, previsto che i colloqui dei detenuti con i propri familiari siano svolti, ove possibile, in videoconferenza e, a quanto risulta, gli istituti penitenziari si stanno attrezzando in questa direzione. Certo, si tratta di una modalità che non potrà mai adeguatamente sostituire la presenza reale delle persone. Ma la situazione delle carceri altro non fa che riflettere la più generale situazione del paese, se si considera che il lockdown sta costringendo tutti noi ad “incontrarci” sulle piattaforme digitali. In un quadro del genere, l’aumento del senso di isolamento e di alienazione è inevitabile. Ed è chiaro come esso raggiunga livelli critici in un ambiente per definizione chiuso come quello carcerario”.

A tal proposito, vi è anche un altro aspetto da non sottovalutare: c’è chi evidenzia che, con l’irrigidirsi delle misure d’isolamento, si profili il pericolo di un aumento dei casi di suicidio, fenomeno di vasta portata nelle carceri già prima di questa emergenza. Crede che vi sia davvero il rischio di un consistente aumenti dei suicidi in cella? Come si potrebbe agire per evitare che ciò si realizzi?

Credo che il rischio sussista eccome, e non è facile immaginare strumenti normativi per eliminarlo. Ben di più possono fare le opportunità già da tempo offerte ai detenuti in molte carceri: le cooperative che consentono si svolgere attività lavorative, e l’incessante opera – tanto oscura quanto preziosa – del servizio sociale penitenziario, il quale, in momenti come questo, diventa ancora più indispensabile. Personalmente, ho avuto modo di constatarlo tutte le volte in cui ho accompagnato i miei studenti a visitare la casa di reclusione di Padova, in cui si svolgono attività di supporto psicologico e di recupero di importanza davvero cruciale”.

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