SOCIETÀ

Pandemia e utopie antiurbane, come uscirne?

«In condizioni normali, nel loro habitat culturale, gli animali selvaggi non si mutilano, non si masturbano, non aggrediscono la loro prole, non si fanno venire l’ulcera allo stomaco, non diventano feticisti, non soffrono di obesità. (...) Ora tutte queste cose si verificano notoriamente tra gli uomini che popolano le città». Questa celebre frase di Desmond Morris (La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo, Bompiani, 1967) sintetizza con ironia e con efficacia un’idea largamente diffusa nell’antropologia contemporanea: l’idea della città come paradigma dell’evoluzione ‘antinaturale’ che segnerebbe irrevocabilmente l’odierno cammino della specie umana.

Il concetto è ritornato di grande moda nelle analisi e nei commenti sulle radici e sull’impatto sanitario e sociale della pandemia in atto: scrivendo oggi, Morris avrebbe potuto aggiungere che “tra gli uomini che popolano le città ci si ammala di più e peggio di Covid”. 

Come osservano nell’introduzione a questo confronto a più voci ospitato su Il Bo Live, Cristoforo Sergio Bertuglia, Franco Vaio e Pietro Greco (ne approfitto per rivolgere un pensiero a Pietro che ci ha lasciato, grande giornalista e grande intellettuale), «la pandemia ha tracciato un solco tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, uno spartiacque tra un mondo che pensavamo di controllare e un mondo dal profilo incerto». Un ‘prima’ e un ‘dopo’ che investono anche l’idea di città.

Nelle città, meglio nelle grandi città, la malattia sembra essere più aggressiva perché troverebbe terreno più fertile in popolazioni che già subiscono l’impatto sanitario di un’aria particolarmente inquinata. Questa ‘correlazione positiva’ tra livelli d’inquinamento dell’aria e tassi di letalità del virus pandemico è tuttora oggetto di verifiche e approfondimenti, ma anche sul piano strettamente logico è plausibile che una patologia come il Covid-19 che insidia soprattutto l’apparato respiratorio sia amplificata nei suoi effetti dal fatto di innestarsi su condizioni epidemiologiche cronicamente caratterizzate da una forte morbilità ‘da smog’, cioè da un problema sanitario che attiene a patologie respiratorie. 

Di più, la moderna dimensione urbana – le metropoli, le città che consumano sempre nuovo territorio e sono già divenute l’habitat di oltre metà degli umani – è stata proposta da più parti come emblema di quell’attitudine dell’uomo contemporaneo a distruggere natura, wilderness, che ha fatto crescere negli ultimi decenni il rischio di zoonosi, cioè di infezioni trasmesse da virus e batteri che saltano di specie dagli animali all’uomo, fino al dramma globale che stiamo vivendo causato dal salto di specie del Covid-19 da mammiferi selvatici (pipistrello, pangolino) a noi umani. Così, la crescente promiscuità tra animale-uomo e animali selvatici, figlia di un’umanità che cancella sempre più wilderness, trova nella città il suo luogo simbolo: basti pensare ai ‘wet market’ delle metropoli cinesi, dove sembra sia avvenuto il primo spillover sia del Covid-19 che di altri recenti virus pandemici.

Da quando è cominciata la pandemia e soprattutto da quando sono partiti i divieti d’incontro e di assembramento per limitare il contagio, in tutto il mondo centinaia di articoli sui giornali e sul web, di reportage televisivi, hanno strillato lo stesso concetto: “Covid-19 è fuga dalle città”. In realtà, nulla fa pensare che nel dopo-Covid la tendenza a una crescente urbanizzazione delle società umane sia destinata a fermarsi, ma certo la ricorrente associazione tra pandemia e città richiama ed amplifica una suggestione culturale, l’utopia antiurbana, abbondantemente presente in molti pensieri critici della modernità a cominciare dal pensiero ecologico. 

In effetti, la città simboleggia ancora meglio dell’industria, della tecnologia, quella dimensione artificiale, ‘denaturalizzata’, che marca a sua volta come un’impronta originaria l’età contemporanea, e da decenni è divenuta anche l’emblema di uno dei maggiori e più inediti problemi del tempo presente: la crisi ecologica, cioè la comparsa e poi il progressivo accentuarsi di fenomeni – le varie forme d’inquinamento, l’impoverimento della biodiversità, i rischi di esaurimento delle risorse naturali, oggi la crisi climatica – che testimoniano di una sostanziale rottura, ad opera dell’uomo, degli equilibri ecologici.

Questa rottura, infatti, nelle città si manifesta con forza ed evidenza moltiplicate, e dalle città ha ricevuto il principale alimento. «Nel 20° secolo – scrive lo storico John McNeill (Qualcosa di nuovo sotto il sole, Einaudi, 2000) – il processo di urbanizzazione ha avuto ripercussioni enormi sull’intera vita dell’uomo e ha rappresentato una frattura notevole rispetto ai secoli precedenti. In nessun altro luogo come in città l’uomo ha alterato l’ambiente: ma l’impatto delle città è andato ben al di là delle mura cittadine. L’espansione urbana è stata fonte primaria di cambiamento ambientale».  L’impatto ambientale delle città è oggetto da quasi mezzo secolo di un corposo indirizzo di studi e analisi quantitative, basato sul concetto di ecosistema urbano. L’assunto teorico di questo ambito di ricerca, trasversale a molteplici discipline (dalla biologia alla fisica, dalla sociologia all’urbanistica), è che le città funzionano anch’esse come un sistema vivente, un ecosistema, ma come un ecosistema artificiale, fattore principale di consumo e degradazione del ‘capitale naturale’: «Gli ecosistemi naturali – scrive l’ecologo Virginio Bettini (Elementi di ecologia urbana, Einaudi, 1996) – producono e rielaborano al proprio interno i rifiuti e i residui delle attività che vi si svolgono. I rifiuti ridiventano, cioè, materiali in entrata per gli stessi cicli naturali. L’ecosistema città utilizza, metabolizza e rielabora invece materiali che sono sostanzialmente estranei alla vita all’interno delle città. I rifiuti devono perciò essere portati all’esterno o trattati con processi tecnici e i rifiuti finali sono profondamente differenti dai materiali utili che sono entrati nella città e da cui i rifiuti si sono formati. La produzione di rifiuti ‘dentro’ un ecosistema urbano è quindi generalmente accompagnata da effetti ambientali negativi, da un peggioramento della qualità dell’ambiente, da un inquinamento».

Dunque le città sono gli ecosistemi più dissipativi, la loro ‘impronta ecologica’ è incomparabilmente superiore alla superficie da esse occupata. Ecco una breve e non esaustiva rassegna dei ‘capitoli’ di cui si compone questa vocazione dissipativa degli ecosistemi urbani: 

  • Secondo i dati del Programma delle Nazioni Unite per gli Insediamenti Umani (Un-Habitat), oggi le aree urbane consumano il 75% di tutta l’energia prodotta e sono responsabili dell’80% delle emissioni di gas serra che favoriscono i mutamenti climatici nonché di quote largamente maggioritarie delle altre forme di inquinamento atmosferico. 

 

  • Rispetto alla crisi climatica, nelle città si concentra buona parte non solo delle cause antropiche che alimentano il climate change ma anche dell’impatto sanitario e sociale che il riscaldamento globale sta già determinando, e se non verrà arrestato sempre di più determinerà nel prossimo futuro, sulla salute e sul benessere socioeconomico dell’umanità. Per l’elevata densità abitativa le città sono i luoghi maggiormente esposti alle conseguenze più dannose per l’uomo dei fenomeni – aumento della temperatura, impoverimento delle risorse idriche, incrementata frequenza e intensità di alluvioni e inondazioni – legati al global warming. Questa vulnerabilità è massima nelle grandi megalopoli asiatiche, africane, latino-americane, quasi tutte collocate in contesti climatici caratterizzati dalla ricorrenza di fenomeni meteorologici estremi (cicloni, inondazioni…) e dove milioni di persone vivono in condizioni igieniche e logistiche quanto mai degradate. Ma non risparmia affatto le città del mondo ‘ricco’: perché l’aumentata frequenza e intensità di alluvioni e siccità si estende alle latitudini temperate, come dimostra l’apocalittico bilancio di vittime e di danni del passaggio dell’uragano Katrina su New Orleans nell’agosto 2005; e perché le ondate anomale di calore estivo che sempre più spesso colpiscono anche l’Europa e gli Stati Uniti, hanno sulle città un impatto umano più accentuato che nelle aree rurali. In quasi tutte le città europee, le temperature medie hanno fatto registrare nell’ultimo decennio aumenti significativi. Mettendo a confronto le medie del periodo 1960-1980 con quelle del periodo 2000-2006, si evidenzia un incremento superiore a 1°C per Londra, Parigi, Berlino, Oslo, Madrid, Roma, Milano, Lisbona, Belgrado, Zurigo. 

 

  • Nelle città si registrano concentrazioni di inquinanti atmosferici (ossidi di azoto, idrocarburi, polveri sottili…) mediamente molto più elevate che nei contesti extraurbani, dovute in prevalenza al traffico automobilistico e agli impianti di riscaldamento degli edifici. In particolare, nelle grandi città di tutto il mondo le concentrazioni in atmosfera di polveri sottili superano frequentemente i limiti considerati sicuri per la salute dell’uomo. Così è pure in Europa, dove vige da tempo una legislazione rigorosa in materia, ma dove in quasi tutte le metropoli – da Londra a Roma, da Vienna a Bruxelles, da Milano a Praga – l’inquinamento da polveri sottili è un fenomeno pressoché costante. In Italia, concentrazioni analoghe a quelle rilevate nelle metropoli si osservano anche in molte città di medie e piccole dimensioni: nel 2020, secondo i dati raccolti da Legambiente, 35 capoluoghi di provincia italiani sono stati ‘fuorilegge’ per i livelli di polveri sottili nell’aria.

Come attestano sempre più numerosi e autorevoli dati scientifici, l’inquinamento atmosferico che grava sulle città di tutto il mondo è, prima ancora che un problema ambientale, un urgente problema sanitario: per la popolazione urbana, il fatto di respirare aria inquinata predispone a un rischio maggiore di contrarre patologie gravi al sistema respiratorio e cardiocircolatorio (cancro ai polmoni e altre patologie respiratorie, infarto, ictus).

 

  • L’alta densità di motorizzazione fa sì che nelle città la mobilità di persone e merci sia tendenzialmente congestionata: che significa tempi molto lunghi anche per spostamenti di pochi chilometri. Per esempio, secondo l’Isfor, è di oltre un’ora il tempo giornaliero che ogni italiano occupa per spostarsi, e la distanza media percorsa è inferiore ai 40 chilometri. In Italia le città presentano livelli d’inquinamento atmosferico mediamente più elevati che nel resto dell’Europa occidentale, e ciò dipende largamente dalla cronica inadeguatezza delle infrastrutture e dei servizi del trasporto pubblico urbano e locale che ha sempre favorito la netta prevalenza della mobilità privata su gomma, di gran lunga la più inquinante. 

 

  • Le città occupano sempre più spazio fisico, dunque consumano sempre più territorio vergine. Dopo una lunga fase storica nella quale la crescita urbana è stata più demografica che spaziale, oggi questo rapporto – soprattutto in Europa dove la popolazione è pressoché stabile – si è del tutto rovesciato: la dimensione fisica delle città aumenta molto di più della popolazione, e in numerosi casi – specie nel corso degli ultimi vent’anni – continua a crescere malgrado la popolazione diminuisca. 

 

  • La presenza all’interno delle città di aree verdi pubbliche è un importante indicatore di qualità dell’ambiente urbano (parchi e giardini pubblici hanno effetti mitigatori sia sull’inquinamento atmosferico che sulle cosiddette ‘isole di calore’), ed è uno di quelli che influisce più direttamente sulla qualità di vita e in generale sul benessere di chi abita in città. La dotazione pro capite di verde urbano fruibile varia moltissimo da città a città. In Europa si oscilla tra gli oltre 30 metri quadrati/abitante di Oslo, Stoccolma, Copenaghen, e i 4 di Riga o Saragozza, mentre in Italia vi sono città che superano i 20 metri quadrati/abitante (tra queste Brescia, Bolzano, Cagliari, Trieste, Parma, Bologna, Siena) e città anche grandi (Napoli, Bari) che ne hanno meno di 10. 

 

  • I rifiuti – quanti se ne producono, come vengono raccolti e trattati – sono un altro aspetto cruciale che vede le città come ‘centro’ della crisi ecologica. In questo campo, le città dei Paesi industrializzati e quelle dei Paesi più poveri o di più recente sviluppo presentano condizioni e problemi speculari. Nelle prime, la produzione pro-capite di rifiuti solidi urbani è molto più alta (in media 1,4 chilogrammi/abitante/giorno, contro gli 0,6/0,8 chilogrammi/abitanti/giorno delle altre), ma con poche eccezioni – che riguardano anche molte città dell’Italia meridionale, prima fra tutte Napoli – tutti i rifiuti prodotti sono raccolti e smaltiti in modo sicuro per la salute dei cittadini. Invece nelle città dell’Africa, dell’America Latina e di gran parte dell’Asia, solo una parte dei rifiuti prodotti viene raccolta e smaltita correttamente; a Calcutta come a Rio de Janeiro, a Nairobi come a Città del Messico, slum, favelas e bidonville pullulano di discariche a cielo aperto, che sono causa di gravissimi problemi igienico-sanitari.

 

  • L’Italia in fatto di rifiuti rappresenta un’anomalia e un paradosso: con quasi tutte le città del nord e molte di quelle del centro allineate ai migliori standard europei quanto a raccolta, recupero e riciclo dei rifiuti urbani prodotti, con quasi tutte le città del sud nelle quali la raccolta differenziata delle diverse frazioni di materia (carta, plastica, umido, vetro…) è a livelli minimi e buona parte dei rifiuti viene tuttora smaltita nelle discariche, dunque nell’ambiente. Questa grave insufficienza dei servizi e delle infrastrutture di raccolta e trattamento dei rifiuti urbani, sommata al forte peso delle attività di smaltimento illegale – soprattutto dei rifiuti industriali – che hanno come protagonista la criminalità organizzata (le cosiddette ‘ecomafie’), determina in buona parte dell’Italia del sud sia un rilevante spreco di ‘materie prime seconde’ potenzialmente riutilizzabili, sia una condizione di ricorrente crisi ambientale, sanitaria, sociale.

Per i movimenti ecologisti la città è ‘croce e delizia’. Il loro sguardo sull’ecosistema urbano è sempre stato severo, preoccupato. Fondamentalmente antiurbana era la sensibilità del movimento conservazionista sorto negli Stati Uniti a cavallo tra Ottocento e Novecento, che vedeva nell’avanzata delle città la più grande minaccia per la wilderness, la natura vergine della ‘frontiera’, che proprio grazie all’impegno dei grandi conservazionisti come John Muir e Aldo Leopold verrà protetta nei grandi parchi nazionali (Yellowstone, Yosemite). E attraversata da una radicalissima, impietosa critica verso la città è la riflessione di uno dei padri nobili dell’ecologia politica, Lewis Mumford, che da una parte esalta la pòlis greca e il borgo medievale – città dell’equilibrio, del limite – e dall’altra condanna non soltanto le megalopoli contemporanee, ma anche come loro progenitrici la Roma antica e la città rinascimentale e barocca, accomunate dalla medesima tendenza a tracimare ben oltre la propria nicchia ecologica, a crescere illimitatamente sia in popolazione che in estensione.

Ma il rapporto del moderno pensiero ecologico con la città è tutt’altro che univoco. Anzi è tipicamente un legame ambivalente, di amore e odio. È infatti nelle città che maturano le condizioni culturali perché l’uomo possa ‘scoprire’ l’ambiente come oggetto di un’attenzione specifica. L’uomo che abita e lavora in città non vive più la natura come una condizione diretta, immediata della vita pratica, della sopravvivenza economica; così, prendendone le distanze, può emanciparsi da una relazione con essa esclusivamente utilitaristica e strumentale, e cominciare a riconoscerle un valore e un’importanza autonomi. Quanto più la società si va artificializzando, tecnicizzando – e la città è il luogo massimo di tale processo –, tanto più attecchiscono nell’uomo i semi della preoccupazione ecologica. 

Ancora più decisamente urbano nella sua visione della crisi ecologica è l’ambientalismo, movimento culturale e sociale sviluppatosi a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. L’ambientalismo si presenta con caratteristiche assai diverse da quelle dei movimenti conservazionisti della prima metà del Novecento: nasce nel segno di una rifondazione dell’esigenza ecologica su basi sociali, umanistiche, più che etiche ed estetiche, nasce con l’ambizione di tradurre la difesa dell’ambiente da astratto valore ideale in concreto interesse sociale, e seguendo tale ambizione tende ad intrecciarsi e contaminarsi con bisogni e preoccupazioni squisitamente urbani. Il suo obiettivo non è tanto di sottrarre lembi di natura all’avanzata di fabbriche e città, ma è molto più generale e politico: combattere l’inquinamento e dunque mettere in discussione la stessa desiderabilità sociale, prima ancora che ecologica, di una crescita economica illimitata. E come la fabbrica, secondo l’analisi marxiana, è al tempo stesso l’epicentro dell’iniquità del sistema capitalista e il luogo dove maturano le condizioni sociali per sconfiggere o limitare tale iniquità, così la città, nella concezione e nell’esperienza dell’ambientalismo, è la massima espressione della crisi ecologica, ma anche il teatro principale della sua presa di coscienza da parte dell’uomo nonché dell’azione per evolvere verso una società, verso un’economia sostenibili. 

La pandemia non interromperà il cammino di affermazione della città come ‘nicchia ecologica’ privilegiata di Homo sapiens. Ma potrebbe riorientarlo, a partire da una lezione che viene da questa drammatica crisi sanitaria: Homo sapiens deve liberarsi dall’illusione di essere ‘altro’ dal mondo naturale che 200 mila anni fa lo ha generato e che da allora lo ospita. Nella città si giocherà la sfida dell’uomo contemporaneo per ritrovare un ‘modus vivendi’ sostenibile – ambientalmente, socialmente – con la natura, nella città si vincerà o perderà la partita contro il climate change che ipoteca il futuro, anche prossimo, della nostra specie. 

La prima condizione perché l’esperienza drammatica del Covid aiuti a ridisegnare l’ecosistema urbano nel segno della sostenibilità ambientale, è che la città torni a essere protagonista nel dibattito pubblico e in particolare nella riflessione e nell’elaborazione delle culture progressiste, prima di tutto rispetto al tema – quanto mai dirimente nel caso delle politiche urbane – del rapporto tra decisione pubblica e legittimi interessi degli attori privati. In Italia più che altrove non accade da tempo, questa è una delle ragioni, non l’ultima, per cui le città italiane in Europa sono – con eccezioni, certo – tra quelle più lontane dal paradigma della sostenibilità. 

L’Unione Europea ha messo a disposizione 750 miliardi di risorse proprie per finanziare la ripartenza nel dopo-Covid: il Next Generation EU. È una svolta rivoluzionaria, è la prima volta dalla sua nascita settant’anni fa che le istituzioni europee, agendo come uno Stato federale sovrano, decidono di finanziare le loro politiche con risorse provenienti non dai contributi dei singoli Stati membri, ma da debito e tassazione (in questo caso, una ‘digital-tax’ sui proventi dei giganti del web) comuni. Circa 200 miliardi del Next Generation EU andranno all’Italia mentre un terzo dell’intera somma – la fetta più grande – è riservato per l’appunto a progetti legati alla transizione ecologica. 

Le risorse del Next Generation EU sono un’occasione preziosa per dare impulso alla ‘transizione ecologica’, sfida che si gioca anche e molto sul terreno delle politiche urbane. Finora, va detto, l’Italia non sembra del tutto consapevole di questa connessione. Sia nella versione preparata dal governo Conte sia in quella attuale, come aggiornata dal governo Draghi, il Pnrr – il ‘Piano nazionale di ripresa e resilienza’, nel quale sono indicati gli interventi e le opere che s’intendono realizzare con i miliardi messi a disposizione dall’Europa – le città occupano un posto del tutto marginale. Caso emblematico quello dei progetti per la mobilità sostenibile, uno dei capitoli principali del Piano: ai trasporti urbani e regionali – reti tramviarie e metropolitane, autobus di nuova generazione, treni regionali, mobilità ciclabile – è riservato meno di un terzo delle risorse destinate ai trasporti. Se su questo terreno non ci sarà un deciso passo in avanti, si perderà l’occasione di utilizzare i miliardi del Next Generation EU per colmare uno dei ritardi cronici dell’Italia in tema di sostenibilità ambientale. 

È urgente che il tema urbano torni centrale nel pensiero e nella pratica dei ‘progressisti’, se si preferisce della ‘sinistra’. A questo obiettivo gli ecologisti possono dare un contributo importante, a patto però di liberarsi di ogni residuo pregiudizio antiurbano. 

La popolazione mondiale fra qualche decennio smetterà di crescere, invece continueranno ad aumentare la percentuale della popolazione urbana e il numero delle megalopoli. All’alba del XXI secolo, proprio a partire dalle città l’uomo contemporaneo deve trovare e percorrere la via stretta, ma obbligata, dell’equilibrio tra l’aspirazione al benessere, anche al benessere materiale, e la necessità, anch’essa un proprio interesse primario, di non danneggiare irreparabilmente gli equilibri ecologici, di integrare nei propri comportamenti la consapevolezza del carattere limitato, finito, degli ecosistemi e della loro capacità di assorbire la pressione antropica. Il nostro destino ecologico dipenderà in larga misura da come cambieranno le città: assomiglieranno sempre di più agli inferni metropolitani largamente descritti dalla letteratura e dal cinema, come la Leonia sommersa dai rifiuti che narra Italo Calvino (Le città invisibili, Mondadori, 1972), le megalopoli agonizzanti profetizzate da Roberto Vacca (Il medioevo prossimo venturo, Mondadori, 1971; La morte di megalopoli, Mondadori, 1974), o ancora la Manhattan rappresentata da John Carpenter in 1997 Fuga da New York (1981), sconfinata prigione metropolitana su cui regnano bande di ergastolani senza pietà e senza speranza? O invece cammineranno in direzione dell’utopia ‘eco-tecnologica’ raccontata più di trenta anni fa da Ernest Callenbach in Ecotopia (Mazzotta, 1975), romanzo-manifesto dell’allora nascente movimento ambientalista, che descrive città-modello, modernissime e a perfetta misura d’uomo e di natura? 

Come attesta lo stesso concetto di ecosistema urbano, la città non è affatto il luogo della ‘antiecologia’, e anzi oggi è divenuta l’habitat per eccellenza di una specie tra le altre, la nostra: «La città – scrive l’urbanista Francesco Indovina (La città sostenibile: sosteniamo la città, «Archivi di studi urbani e regionali», 2003, 77, p. 12) – non è prodotto esogeno alla specie, è essa stessa il risultato di una ‘invenzione’ (sociale), come se l’umanità avesse, essa stessa, creato la nicchia all’interno della quale l’evoluzione sarebbe stata non solo assicurata ma anche più dinamica. Contemporaneamente la città in quanto tale genera un’entropia crescente e tale da incidere negativamente sulla nicchia. Per evitare questo evento catastrofico la soluzione non sta nella ‘fuga dalla città’, ma piuttosto nel lavorare sulla città, al fine di garantirne la sopravvivenza come ‘nicchia ecologica’». Sostiene Jacques Herzog, grande architetto svizzero, in una recente intervista al quotidiano La Repubblica (6 gennaio 2021): «La pandemia sta dicendo quanto sia urgente lavorare sulla città, che è ancora il luogo migliore in cui vivere. L’idea di trasferirsi in campagna è solo uno slogan, un’opzione per pochi privilegiati». Ha ragione Herzog, dunque la possibilità concreta che il trionfo dell’era urbana non segni anche l’apoteosi della crisi ecologica dipende in buona parte da quanto le città si andranno avvicinando alla Leonia di Calvino o invece alla Ecotopia di Callenbach.

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