CULTURA

Perché tifiamo per i “cattivi”?

Da Medea a Macbeth, da Diabolik a Walter White di Breaking bad. Se pensiamo ai malvagi per eccellenza nella letteratura, nei fumetti, a teatro o al cinema, è difficile non ammettere che, almeno qualche volta, abbiamo fatto il tifo per loro, o almeno compreso i loro intenti e sentimenti, nonostante li riconoscessimo come personaggi assolutamente riprovevoli dal punto di vista morale. Cosa succede nell’arte di diverso dalla vita che ci spinge a provare empatia verso assassini, truffatori e malintenzionati in generale dai quali, nella realtà, ci terremmo più a distanza possibile?

I meccanismi alla base di questa particolare esperienza estetica vengono approfonditi da due professori di critica letteraria e letterature comparate – Stefano Ercolino (università Ca’ Foscari di Venezia) e Massimo Fusillo (università degli studi dell’Aquila) – nel libro Empatia negativa (Bompiani, 2022). In questo volume, gli autori selezionano alcuni casi di studio (artisti, opere e personaggi) relativi a diverse forme d’arte, quali letteratura, teatro, performance art, pittura, fotografia, installazioni e cinema, per proporre una loro teoria sull’empatia negativa, che formulano a partire dalla ricostruzione dei diversi significati che assume questo concetto nelle principali teorie filosofiche e neuroscientifiche che si sono occupate di analizzarlo sistematicamente.

“Le origini dei concetti di empatia positiva e negativa risalgono alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento con le teorie di Theodor Lipps, considerato il fondatore del dibattito contemporaneo sull’empatia sia in filosofia che in psicologia”, racconta il professor Ercolino a Il Bo Live. “Secondo Lipps, l’unica autentica forma di empatia consiste in un atto fusionale che avviene tra noi e l’oggetto o l’individuo con cui abbiamo a che fare quando entriamo in sintonia con esso. Per Lipps esisteva anche un’altra forma molto particolare di empatia, quella negativa, che secondo la sua teoria consisteva in un sentimento di repulsione e allontanamento da uno specifico oggetto.

Lipps sosteneva che l’empatia negativa non potesse esistere nella sfera estetica. Nel nostro libro, invece, sosteniamo la tesi opposta, descrivendo l’empatia negativa come un’esperienza estetica tensiva che ci attrae verso un oggetto artistico e allo stesso tempo ci spinge a distanziarcene, mettendoci di fronte a problemi di carattere morale”.

Infatti, come aggiunge il professor Fusillo, “l’idea che una persona possa sintonizzarsi con personaggi che condanna dal punto di vista morale e con cui nella vita quotidiana non andrebbe nemmeno a prendersi un caffè è proprio ciò che rende l’esperienza estetica così insostituibile. In questo senso, l’arte ci consente di approfondire zone della nostra psiche che sono in contrasto con la nostra concezione del bene e della morale”.

L’intervista completa a Stefano Ercolino e Massimo Fusillo, autori del libro “Empatia negativa” (Bompiani, 2022). Montaggio di Barbara Paknazar

Come argomentano Ercolino e Fusillo nel libro, riprendendo in questo caso anche le teorie di Hume, una condizione fondamentale perché si inneschi la compassione, che è spesso una componente importante dell’empatia, è l’esistenza di una certa distanza tra la persona che esprime un’emozione e il soggetto che prova empatia nei suoi confronti. Questo può accadere anche nell’arte, ma in modo un po’ diverso. Infatti, mentre nella vita siamo soliti gioire per gli eventi positivi e soffrire per quelli dolorosi, nel dominio estetico riusciamo a trarre piacere anche di fronte al dolore narrato, ad esempio quando assistiamo a una tragedia a teatro oppure osserviamo il Martirio di San Matteo dipinto da Caravaggio.

La consapevolezza della finzione artistica è quell’elemento “protettivo” di distanza che ci fa sentire al sicuro e ci permette di godere del dolore e del tragico senza esserne coinvolti personalmente. Questo mix tra piacere e dolore conduce al sentimento del sublime che caratterizza l’esperienza estetica e alla catarsi, che secondo gli autori di Empatia negativa rappresenta un’altra caratteristica fondamentale di questo sentimento.

“Per quanto si possa essere totalmente immersi in un film, un romanzo o in una qualsiasi opera d’arte, resta sempre una parte di noi che ci ricorda che quell’esperienza estetica non corrisponde alla realtà”, spiega il professor Fusillo. “Proprio questa distanza, seppur minima, che manteniamo tra noi e l’opera d’arte è ciò che ci consente di empatizzare, ad esempio, con Macbeth, quando assistiamo alla rappresentazione del dramma a teatro. Scoprendo la sua sofferenza e i suoi tormenti, riusciamo a sintonizzarci con l’ambizioso criminale shakespereano pur sapendo che non vorremmo mai assomigliargli nella vita reale.

Per quanto riguarda invece il concetto aristotelico di catarsi, di cui si discute da secoli, l’idea di fondo è che dentro ognuno di noi esista una carica negativa, distruttiva e autodistruttiva che riusciamo a liberare solo attraverso l’esperienza estetica”. “Per approfondire il concetto di catarsi abbiamo attinto anche alla psicanalisi freudiana, che abbiamo interpretato quasi come un naturale complemento e continuazione del pensiero di Aristotele”, aggiunge il professor Ercolino. “La catarsi assume quindi un ruolo fondamentale all’interno della nostra teoria sull’empatia negativa, essendo il processo attraverso il quale noi spettatori riusciamo a liberarci delle pulsioni più oscure e inquietanti che sentiamo agitarsi dentro di noi in un ambiente sicuro, protetto dal perimetro tracciato dall'esperienza estetica”.

Nel libro vengono analizzate le diverse strategie utilizzate da artisti, scrittori, attori e registi per farci empatizzare con i personaggi negativi o con il male in generale anche nelle occasioni più estreme in cui quella cornice protettiva che separa l’arte dalla vita sembra venire meno. Questo accade, ad esempio, nelle performance di artisti contemporanei come Marina Abramović, Roberto Cuoghi e Hermann Nitsch, che sembrano sfociare addirittura in forme di autolesionismo.

“La performance art si sviluppò a partire dagli anni Settanta come un tentativo di sperimentazione radicale che mirava all’eliminazione dei confini fra arte e vita e tra personaggio e performer”, racconta Fusillo. “Nel libro ci soffermiamo sull’analisi di alcune performance particolarmente estreme per la loro durata prolungata – come, ad esempio, Il teatro delle Orge e dei misteri di Hermann Nitsch nel castello di Prinzendorf –  o per il tentativo di portare all’estremo il rapporto tra performer e pubblico mettendo addirittura a repentaglio la propria stessa esistenza, come nel caso della famosissima performance Rhythm 0 a Napoli di Marina Abramović, durante la quale l’artista mise il suo corpo a disposizione degli spettatori per alcune ore di fila, insieme ad alcuni oggetti tra cui una pistola carica che a un certo punto qualcuno tra il pubblico le puntò alla testa, prima di essere fermato dagli altri spettatori. Questo esempio ci fa capire come anche in queste occasioni più estreme, in cui non esiste più la differenza tra interprete e personaggio, resiste sempre una forma di distanza tra arte e vita, in questo caso garantita proprio da parte del pubblico che mantenne il controllo emotivo”.

Ma dopo aver parlato di personaggi e interpretazioni, Ercolino e Fusillo spiegano anche come l’empatia negativa non debba per forza essere diretta a un essere umano, reale o finzionale che sia, ma anche a un autore, un tipo di linguaggio o di atmosfera evocata dall’opera.

“Si tratta di un punto teorico importante che abbiamo voluto sviluppare nel libro cercando di approfondire come avvenga il processo di empatizzazione con un dipinto, un’installazione, un edificio o una composizione musicale attraverso il concetto di stimmung, spiega il professor Ercolino. “Si tratta di un concetto piuttosto difficile da tradurre in italiano e che può contenere anche significati molto diversi, come ad esempio “stato d’animo” o, come viene solitamente inteso nel dibattito filosofico contemporaneo, “atmosfera”. Per proporre un esempio molto semplice, possiamo pensare al film Thelma e Louise, in cui il paesaggio desertico che incornicia la fuga delle due protagoniste riesce in modo particolarmente efficace ad aumentare il nostro coinvolgimento nella storia. Allo stesso modo, leggendo un romanzo di Thomas Bernhard, l’uso claustrofobico della sintassi consente al lettore di sintonizzarsi appieno con l’atmosfera dell'opera”.

“Quello di stimmung è un concetto davvero affascinante che abbiamo approfondito anche con riferimento a tutte le arti non narrative di cui ci siamo occupati nel libro”, prosegue Fusillo. “Pensiamo ad esempio all’installazione I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer dove non ci sono personaggi, ma solo torri in stato di decadimento che evocano la distruzione e il male, perché rappresentano le rovine della storia dopo la shoah. La stimmung che ci trasmettono è così intensa e sublime che ci mette anche di fronte al grande paradosso dell’arte, il fenomeno per cui proviamo piacere ad assistere a qualcosa che ci ricorda la tragedia più grande della storia umana”.

A questo punto è bene chiarire un ultimo, importante, punto di questa riflessione: empatia negativa non è sinonimo di complicità morale. A dispetto di quanto suggerisca il titolo di questo articolo, infatti, provare empatia negativa non vuol dire per forza “tifare” per un personaggio malvagio.

“Si tratta di un fraintendimento comune che può nascere dalla discussione di questo concetto”, afferma il professor Ercolino. “Provare empatia negativa non significa condividere il punto di vista del carnefice. Al contrario, significa piuttosto aumentare la nostra consapevolezza della complessità dalla dimensione morale. Infatti, nel libro intendiamo parlare di un meccanismo di allineamento, più che di identificazione. L’empatia arriva, per certi versi, solo fino a un certo punto: ci consente di vedere (come suggerisce il sottotitolo del libro) “il punto di vista del male”, ma sta esclusivamente a noi scoprire cosa accade dopo. Il nostro incontro con il male nell’arte può infatti condurci a una presa di posizione critica nei confronti di un personaggio e ciò che rappresenta, oppure lasciarci sospesi in un limbo tra attrazione e repulsione. È anche vero che in alcuni casi patologici possano verificarsi comportamenti emulativi, come è successo negli Stati Uniti da parte di alcuni assassini che si sono ispirati alla serie televisiva Dexter”.

“I casi in cui la rappresentazione della violenza conduce a comportamenti imitativi rappresentano sicuramente una questione delicatissima in cui, al di là del clamore mediatico (nato ad esempio in seguito alle critiche alla serie Gomorra), bisogna comunque ricordare l’esistenza di una libera scelta (o di una condizione patologica preesistente) da parte di chi compie un atto criminale ispirandosi a qualcosa che ha visto o che ha letto”, sottolinea il professor Fusillo. “L’allineamento con un personaggio malvagio non implica necessariamente la condivisione del suo punto di vista. Quando assistiamo a una serie come Gomorra, mettiamo temporaneamente tra parentesi la nostra cognizione morale perché ci troviamo catapultati in un mondo in cui regna il male assoluto. Non per questo, però, smettiamo di condannare, dal punto di vista morale, le situazioni e i personaggi che ne fanno parte”.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012