SOCIETÀ

Il Perù nel caos dopo il tentato golpe e l'arresto del presidente Castillo

In Perù finisce sempre così: con il presidente eletto sbattuto in carcere e con il paese dilaniato dalla violenza delle proteste, con la polizia a fronteggiare con violenza (almeno otto finora i morti, compresi due minorenni) chi manifesta la propria rabbia, la propria delusione per una politica che proprio non riesce a riemergere dal pantano della corruzione. L’arresto nei giorni scorsi di Pedro Castillo, socialista, ex maestro elementare, figlio di contadini, che appena l’estate dello scorso anno era riuscito a conquistare a sorpresa e d’un soffio (appena 44mila voti di scarto) la presidenza battendo alle urne la ben più solida candidata di destra, Keiko Fujimori, figlia dell’ex presidente peruviano Alberto Fujimori, attualmente in carcere per corruzione, ricalca un cliché che ormai sa di maledizione per il paese andino. L’ultimo presidente peruviano ad aver concluso regolarmente il suo mandato è stato Fernando Belaùnde Terry, leader del partito centrista Acciòn Popular: ma bisogna tornare al 1985. Da allora in poi soltanto scandali, inchieste e fallimenti (Alan Garcia, nel 2019, si sparò pochi istanti prima di essere arrestato, perché coinvolto nello scandalo Odebrecht). L’ultimo in ordine di tempo è andato in scena il 7 dicembre scorso quando Castillo, da 17 mesi sotto attacco dei deputati di destra che stavano per formalizzare la terza richiesta di impeachment nei suoi confronti, ha tentato il colpo di mano (o di stato) annunciando lo scioglimento del Congresso (guidato dall’opposizione), decretando il coprifuoco, convocando nuove elezioni entro 9 mesi e accentrando su di sé tutti i poteri: costituzionali, giudiziari e militari.  Ma il Congresso si è ribellato e gli ha votato contro (101 voti su 130), chiedendone la destituzione per “incapacità morale permanente”. Undici ministri del suo governo, compresa la vicepresidente, Dina Boluarte, gli hanno immediatamente voltato le spalle. La procura ha poi ordinato l’arresto di Castillo con l’accusa di ribellione. Uno dei più brevi, e surreali, golpe della storia.

L’autogol(pe) di Castillo: da progressista a conservatore

Cosa abbia spinto Pedro Castillo a tentare un gesto così estremo, peraltro senza nemmeno l’accortezza di costruirsi attorno la necessaria “copertura” politica e militare, non è dato sapere. Probabilmente una mossa dettata dalla disperazione, nella certezza che questa volta non l’avrebbe passata liscia, che la richiesta d’impeachment avanzata dalla destra avrebbe ottenuto la maggioranza al Congresso. Nei quasi 17 mesi trascorsi alla Casa de Pizarro, Castillo ne ha combinate di ogni: ha sostituito 5 primi ministri e più di 80 ministri, tagliando i ponti con il partito che lo aveva eletto (Perù Libre) e tentando di difendersi da una raffica di accuse di corruzione, con la Procura generale che lo scorso ottobre lo aveva accusato di aver guidato “un’organizzazione criminale  con legislatori e membri della famiglia” per trarre profitto da contratti governativi, per arricchirsi con appalti statali. L’ex sindacalista ha certamente sofferto il “pressing” asfissiante della destra, peccando anche d’inesperienza, fino a chiudersi tra due porte: come quando, nel tentativo di placare gli attacchi nei suoi confronti, ha nominato in ruoli di prestigio figure “di confine”, scontentando da un lato la sua base che si è sentita tradita, ma non per questo ottenendo il placet degli oppositori. Insomma, è caduto nelle trappole più suadenti e banali di chi stava lavorando per far fallire la sua presidenza, prestando ascolto alle persone sbagliate. Ma Castillo ha continuato nella sua personalissima e sempre più solitaria traiettoria, che l’ha portato dal campo progressista a quello più apertamente conservatore, peraltro schierandosi contro il diritto all’aborto, contro i diritti della comunità LGBT+, contro l’educazione sessuale nelle scuole. Il gradimento per il suo operato, nel paese, era precipitato al 19%.

Poi, l’estate scorsa, è arrivata la spallata dell’ex segretario del suo ufficio presidenziale, Bruno Pacheco, che l’ha accusato di aver intascato 20mila dollari da ciascuno dei colonnelli della polizia in cambio della loro promozione al grado di generale. Una macchia indelebile per chi si era presentato al voto del 2021 giurando di estirpare la corruzione, presentando un programma molto ambizioso (revisione della Costituzione, aumento della spesa per la salute, per l’agricoltura, per l’istruzione, ridiscussione delle concessioni per lo sfruttamento minerario, imposizione alle multinazionali di reinvestire parte degli utili per il miglioramento delle condizioni di lavoro), ma assai inviso alle destre. Che perciò hanno fatto fronte, compatto, al Congresso. Tramando, comprando, calunniando: tutto pur di distruggere la figura del presidente. Al punto che lo stesso Castillo, poche ore prima del suo arresto, in diretta tv, aveva sentito l’esigenza di ripetere: «Mi presento davanti a voi, cari compatrioti, per ribadire ancora una volta che non sono corrotto: non macchierei mai il buon cognome dei miei genitori onesti ed esemplari, che, come milioni di peruviani, lavorano dall’alba al tramonto per costruire onestamente un futuro per le loro famiglie». Per poi puntualizzare, focalizzare il quadro d’insieme: «Durante i mesi del mio mandato un settore del Parlamento ha lavorato con l’unico intento di far fallire il mio mandato: perché questi deputati non hanno mai accettato i risultati di un’elezione che voi, stimati uomini e donne peruviani, avete definito con il vostro voto nelle urne». Lunedì 12 dicembre, dunque 5 giorni dopo la sua cattura, Castillo (o chi per lui) ha scritto su Twitter: «Sono stato umiliato, rapito e maltrattato. Questo è un golpe della destra. Non mi dimetterò». Il giorno successivo ha partecipato in video all’udienza per il ricorso (poi respinto) contro il suo ordine di detenzione. Al giudice ha ribadito: «Non ho mai commesso il reato di associazione a delinquere o di ribellione». Poi ha lanciato un appello: «Voglio sollecitare le Forze Armate e la Polizia Nazionale a deporre le armi e a smettere di uccidere queste persone assetate di giustizia».

Dilaga la protesta nel sud del Perù

Difficile stabilire con esattezza dove finisca l’inesperienza e dove cominci la congiura. Ma l’esultanza di Keiko Fujimori, leader della destra, alla nomina della vice di Castillo, Dina Boluarte come presidente del Perù (prima donna a ricoprire il prestigioso incarico) è un segnale nitido. Boluarte, 60 anni, avvocata, ex esponente di rilievo di Perù Libre, dal quale è stata espulsa lo scorso gennaio dopo aver ammesso di “non aver mai condiviso l’ideologia socialista”, è stata tra le prime a definire la mossa di Castillo “un colpo di stato”. Nel suo primo discorso, dopo il giuramento, ha detto di puntare alla formazione di un governo di unità nazionale (dentro tutti, destra compresa) perché «…è imprescindibile riprendere il cammino della crescita economica e dell’inclusione sociale, e della riforma politica di cui il Paese ha bisogno», oltre al solito refrain sulla lotta alla corruzione, definita «un cancro che deve essere estirpato». Anche lei sembra aver imboccato una sua personale traiettoria politica. La presidente ha anche ringraziato «le Forze armate e la Polizia nazionale che hanno dimostrato di essere un pilastro della democrazia». Proprio mentre nel paese si scatenavano le proteste, imponenti, con decine di migliaia di manifestanti, di sostenitori di Castillo, provenienti soprattutto dalle comunità rurali del sud del Paese, che chiedevano la liberazione immediata dell’ormai ex presidente e la convocazione immediata di nuove elezioni. Al lancio di pietre dei dimostranti la polizia antisommossa ha risposto prima con i gas lacrimogeni, poi con i proiettili: il bilancio, in continuo aggiornamento, parla di almeno sette morti, tra i quali due minorenni, tutti uccisi da colpi d’arma da fuoco, e di diverse decine di feriti.

Ma la situazione sta bruscamente scivolando fuori controllo. Gli scontri stanno crescendo d’intensità, con strade bloccate (qui l’elenco aggiornato, per regione), barricate improvvisate e attacchi a stazioni di polizia, banche, uffici giudiziari, autobus (un bus della compagnia Cruz del Sur è stato incendiato dai dimostranti). E non soltanto a Lima. Le città di Apurímac , Arequipa (dove duemila manifestanti hanno preso d’assalto l’aeroporto), Ica e Cuzco sono state le prime dove il governo ha imposto lo stato d’emergenza, poi esteso a tutto il Perù. Gli aeroporti andini hanno sospeso tutti i voli in entrata e in uscita dalla città. Praticamente bloccata anche l’attività delle compagnie di autobus. Quattro ragazze italiane sono rimaste bloccate per oltre 24 ore nei pressi di Checacupe, nella regione di Cuzco, a bordo di un bus locale diretto in Bolivia, prima di essere trasferite in un vicino ostello. Da martedì scorso i sindacati rurali e le varie organizzazioni in rappresentanza dei popoli indigeni hanno proclamato uno sciopero a tempo indeterminato. I manifestanti chiedono l’immediato scioglimento del Parlamento e la convocazione di nuove elezioni, oltre al rilascio di Pedro Castillo. Come risposta per placare gli animi, la presidente Boluarte, che inizialmente aveva dichiarato di voler restare in carica fino alla scadenza naturale del mandato, nel 2026, ha annunciato sì elezioni anticipate, ma con tutta calma, ad aprile 2024. Annuncio “corretto” poche ore dopo, vista l’escalation delle manifestazioni: si potrebbe votare tra un anno, dicembre 2023. Per chi manifesta, Boluarte è “una traditrice”. Sospetto rafforzato dalle parole di Keiko Fujimori, leader di Fuerza Popular, che al governo della nuova presidente ha detto: «Voglio che la vostra gestione sia compiuta nel rispetto delle istituzioni democratiche, della separazione dei poteri e dello sviluppo del nostro Paese. Per fare questo, puoi contare sul supporto e sul sostegno di Fuerza Popular».

L’abbraccio della destra a Dina Boluarte

Viene dunque da chiedersi: chi è il vero golpista? L’incompetente Castillo che ha di fatto tradito il mandato popolare nel tentativo di assicurarsi un instabile equilibrio all’interno del Parlamento? O la trasformista Boluarte, che non ha esitato a prendere accordi con la destra pur di rovesciare il presidente eletto e prenderne il ruolo senza passare dalle urne? Appena il mese scorso l’Istituto di studi peruviani aveva effettuato un sondaggio su cosa sarebbe accaduto nell’ipotesi di estromissione di Castillo (come dire: un epilogo del genere era nell’aria): ebbene, l’87% degli intervistati aveva risposto che si sarebbero dovute tenere immediatamente le elezioni generali, in base all’equazione politica “se cade il presidente eletto cade anche il Parlamento”. Così non è stato. Scrive il sito Resumen Latinoamericano: «L’ambiziosa Dina Boluarte, che non è di sinistra come alcuni sostengono, è il tassello fondamentale di cui la destra aveva bisogno per compiere il golpe dentro il quadro di legalità democratica. E La Boluarte, che sognava la fascia rossa sul petto, è diventata una furibonda nemica del presidente legittimo, votato da milioni di cittadini. Adesso regna Boluarte, applaudita da Keiko Fujimori e da tutta la destra oligarchica degli affari. È molto probabile che la useranno per un po' e poi la toglieranno di scena, come hanno fatto con Castillo». Gli Stati Uniti, e in subordine l’Unione Europea, hanno immediatamente riconosciuto Boluarte come legittimo successore alla presidenza peruviana, “a salvaguardia della democrazia e dell’ordine costituzionale”. Non altrettanto hanno fatto i governi di Messico, Argentina, Colombia e Bolivia, associati alla cosiddetta pink tide (marea rosa), che continuano a riconoscere Castillo come presidente. L’ex presidente boliviano, Evo Morales, ha chiesto che «si fermi il massacro degli indigeni in Perù, che chiedono rispetto per il loro voto».

Resta la rabbia dei manifestanti (a Cuzco migliaia di studenti hanno occupato l’Università di San Antonio Abad) che chiedono le dimissioni della “golpista” Boluarte, accentuata da una situazione economica non esaltante (l’inflazione è all’8,6% su base annua con una drastica riduzione del potere d’acquisto per le famiglie) e uno scollamento sempre più ampio tra popolo e classe politica, sprofondata oramai in un discredito che sembra non avere fine. Boluarte, che come il suo predecessore non ha un partito compatto alle sue spalle e che perciò appare altrettanto fragile, ha già commesso un grave errore: ha pubblicamente disprezzato le ragioni della protestaattribuendole a “prepotenti, persone pagate dai burocrati castillisti oppure a infiltrati che facevano parte di organizzazioni terroristiche scomparse alla fine degli anni 90”. Un disprezzo che ha immediatamente fatto aumentare la collera dei dimostranti. Una somma di fattori che rischia di far precipitare il Perù in un pericolosissimo vortice d’ingovernabilità.

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