I motivi d’attrazione che una foto può esercitare su di noi sono più d’uno, così come possono essere molteplici le conseguenze sulle azioni umane una volta che l’immagine sia stata assorbita. Non si può negare però che da tanta pluralità possa generarsi in alcune circostanze un unico impatto di massa e una evidente potenza simbolica. In questi casi l’immagine entra prepotentemente nell’arena del nostro immaginario e lì si stabilisce, consentendo solo due reazioni: 1 e 0, cioè appartenerle o rimuoverla.
Risalgono al 2 settembre del 2015 le foto del bambino curdo-siriano Aylan Kurdi, trascinato dalle onde su una spiaggia turca e lì riverso, esanime, a pochi centimetri dall’acqua, il livido volto sulla sabbia, con la maglietta rossa, i pantaloncini blu e le scarpe ancora ai piedi, le braccia lungo i fianchi. Oltre allo scatto del corpo del bambino riverso sulla battigia, circolarono altre immagini: in una di queste un militare turco in evidente stato di disagio teneva in braccio il cadavere di Aylan, portandolo via dalla spiaggia, in un’ennesima e dolorosa variante della Pietà di Michelangelo. Le immagini furono capaci di generare, nel loro insieme, una sorta di contro-narrazione rispetto alla perentorietà acuminata del clima di opinione italiano ed europeo sui migranti.
La comunicazione politica di quanti si battevano e si battono contro le migrazioni in atto aveva sino a quel momento battuto sull’incudine dell’opinione pubblica con il martello offerto dalle immagini mentali scaturite dal lemma «invasione»; ecco che d’improvviso esisteva un’alternativa iconica in grado di superare tutte le argomentazioni retoriche e di arrivare direttamente al cuore del lettore/spettatore imponendo domande cui non si può sfuggire: vogliamo questo? Siamo disposti a sapere che questo bambino – che è uguale o molto simile ai nostri figli e nipoti – è morto annegato nell’indifferenza dell’Europa e del nostro paese? Chi o cosa stava invadendo Alan Kurdi quando il mare lo ha affogato, separandolo dai genitori e dai fratelli?
Le immagini produssero una scossa emotiva, che a sua volta generò uno stato di pietà e di sospensione simile a trattenere il fiato per un lungo attimo, determinando una riorganizzazione dell’immaginario collettivo. L’immagine divenne archetipo. Poi, la marea del clima di opinione si dispose a nuove accelerazioni, governate da un’organizzazione retorica incentrata sulla rinnovata paura delle invasioni dei migranti. Tuttavia le foto di Aylan non furono rimosse dal nostro immaginario: al contrario, esse si annidano nelle nostre menti pronte a riemergere, in modo inevitabile quando le piattaforme digitali e i social network le ripropongono nei nostri spazi on line e nelle nostre bacheche.
L'intervento di Homi k Bhabha all'università di Padova
Un caso più recente (20 giugno 2018) ha riportato alla ribalta altre immagini capaci di determinare una contro-narrazione: mi riferisco alle fotografie e ai video provenienti da McAllen, Texas, dove circa mille messicani (più di 750 adulti e oltre 250 bambini), bloccati mentre cercavano di entrare negli Stati Uniti, erano tenuti in gabbie metalliche. In due stanzoni erano collocate separatamente le gabbie degli adulti e i dei bambini, mentre in un terzo la cella era destinata ai bambini inferiori ai 4 anni, consentendo la presenza dei genitori. Il particolare delle gabbie ha predisposto il lettore/spettatore a un forte impatto, e così è stato: le immagini dei bambini sui materassi sistemati per terra, senza lenzuola e con il solo ausilio delle coperte isotermiche argentate – associate alle situazioni di emergenza, e quindi ansiogene – hanno prodotto una reazione scioccata e indignata. Le reti, i lucchetti, le gabbie, le stanze della palestra, le divise dei militari davanti ai corpi minuti dei bambini “clandestini”: tutto queste tensioni iconografiche hanno generato un immediato assorbimento delle immagini da parte dell’immaginario collettivo occidentale. L’immaginario registra con più forza le discontinuità, come se le immagini create in un clima di sorpresa si incidessero a un livello più rapido e più profondo nella mente. Una delle discontinuità più incisive è dovuta al registrato senso della sproporzione tra gli attori in gioco. Nel caso di Aylan la sproporzione si è giocata tra l’enormità dell’allarme migranti e la minuta figura morta che veniva a rappresentarli. Nel caso del Texas, il senso di sproporzione dominava ogni fotogramma: gabbie come per animali o per criminali violenti alla Hannibal Lecter, materassi buttati, bambini con faccia intimidita dalle divise, giovani adulti seduti su panche addossate alle reti delle gabbie o in fila per un’ispezione. Tutto ciò ha contribuito enormemente a sostituire le argomentazioni discorsive contrarie alle politiche sui migranti del presidente Trump con immagini sinteticamente eloquenti, esaustive. Mentre la fotografia di Aylan provocava una forma disperata di pietà, forse ancorata alla flebile speranza di poter evitare – da quelmomento – altre morti come quella, le immagini del Texas implicano una percezione improntata a una maggior reattività. Si fa strada nella mente, affiancando la sensazione di percepita sproporzione tra gli attori in gioco, il sentimento dell’indignazione, a sua volta fondato su un empito avversativo. In quelle immagini qualcosa cozza – nel profondo – contro le grandi narrazioni del sogno americano e occidentale. Dall’urto tra visione iconica diretta e auto-percezione ideologica si è determinato lo spazio per un sentimento che non esclude l’azione: nei giorni successivi alla pubblicazione e alla trasmissione delle immagini diverse manifestazioni sono state organizzate negli Usa (nella più importante, a Washington, è stata arrestata l’attrice Susan Sarandon).
Infine, un’ultima serie di immagini, questa volta riferite al tragico affondamento di un barcone con a bordo un centinaio di migranti, dati per dispersi (cioè morti) il 29 giugno, a sei chilometri dalla costa libica. Tra di esse domina un’atmosfera luttuosa simile a quella che pervade gli scatti sul corpo di Aylan: in questo caso i cadaveri sono tre, e si tratta di bambini assai più piccoli di Aylan, poco più che neonati, tenuti in braccio da soccorritori. Sconcerto, dolore, pietas: sensazioni e sentimenti frutto di visioni inattese, ma ormai non certo imprevedibili. Forse per resistere al potere di queste immagini – che non lasciano scampo alla crisi profonda della nostra epoca e dei valori che ne dominano il sistema politico ed economico – l’immaginario collettivo concepirà un apposito folder di catalogazione, neutralizzandone l’effetto dinamico che spinge all’azione o quantomeno alla condivisione del sentimento. È quindi possibile che, con l’andare del tempo, i nostri occhi tendano ad abituarsi al materiale incandescente di cui sono fatte queste immagini, ma è anche possibile che le fotografie diventino emblemi e marchi di una condizione che esige il ripensamento e l’azione collettiva fuori dalle derive del clima d’opinione, che in questo caso va letto come disposizione iterata a girare lo sguardo dall’altra parte, cioè a rimuovere ciò che l’immaginazione ha comunque registrato.