Femmina di agapostemon virescens posata su un'echinacea purpurea
Se “per fare tutto ci vuole un fiore”, come cantava Sergio Endrigo con le parole di Gianni Rodari, per fare un prato quante api ci vogliono? È proprio questa la domanda che si è posto un team di ricercatori della Rutgers University, guidati da Rachele Winfree e Dylan Simpson, che ha provato a stimare quante specie di api sono necessarie per impollinare tutte le varietà di piante erbacee che compongono una certa comunità vegetale. La risposta, pubblicata sui Proceedings of the Royal Society B, ci costringe a rivalutare e ricalibrare i piani di conservazione di questi insetti.
Fino ad ora le ricerche sul ruolo delle api come impollinatrici si sono concentrate per lo più sui campi coltivati. E questo ha enfatizzato eccessivamente il contributo delle specie di api più comuni, compreso la più nota e diffusa e di tutte: l’Apis mellifera, allevata in tutto il mondo con le varie sottospecie per il suo miele. Se infatti consideriamo i campi coltivati, sarebbe sufficiente un 2% delle specie di api per garantire l’impollinazione dell’80% delle colture. Ma queste stime non sono affatto rappresentative di quanto avviene realmente negli ambienti incolti e nei prati selvatici. E anzi, rischiano di portarci fuori strada se le applichiamo alla biologia della conservazione.
Così, per rispondere alla loro domanda e calcolare “quante api ci vogliono per fare un prato”, il gruppo di ricercatori guidati da Rachele Winfree e Dylan Simpson ha monitorato per un anno interno dieci appezzamenti nel New Jersey, tra prati selvatici e campi coltivati. E ha documentato quasi 22.000 visite di questi insetti impollinatori ai fiori di 130 specie di piante, tra cui piante comuni come il trifoglio bianco (Trifolium repens) e il trifoglio rosso (T. pratense), varie piante di euforbia (genere Asclepias) e verga d’oro (genere Solidago). E anche piante native del Nord America come il bergamotto selvatico (Monarda fistulosa), la Susan dagli occhi neri (Rudbeckia hirta) e l’astro del New England (Symphyotrichum novae-angliae).
Un'ape del genere ceratina
Il risultato è che a impollinare le 130 specie di piante esaminate sono state oltre 180 specie di api, sulle circa 400 presenti nel New Jersey. Praticamente quasi la metà di tutte le quelle presenti nell’intero Stato. Semplificando molto, possiamo dire che per garantire continuità nel tempo a un prato selvatico o un campo incolto ci vogliono più specie di api che di fiori: una quantità fino a 7,6 volte superiore a quella necessaria per un campo coltivato. E dunque le stime fatte sulle colture risultano totalmente inadeguate per preservare la biodiversità degli insetti impollinatori. Ma non è tutto qui.
Sebbene le osservazioni siano state effettuate tutte in ambienti prativi, e quindi in spazi aperti, tra le 180 specie osservate c’erano anche api associate sia agli habitat forestali che agli habitat più antropizzati. Segno di un raggio d’azione di questi insetti molto più vasto di quanto ipotizzato. E a svolazzare di fiore in fiore, in mezzo a quelle più comuni – come il bombo Bombus impatiens – c’erano anche specie di api localmente rare o molto rare, dai colori sgargianti o metallici, o completamente scure e poco appariscenti, senza le caratteristiche bande. Stando ai dati presentati, circa 45: ovvero il 25% della intera comunità esaminata. Le specie più rare dunque – considerate tutte insieme – costituiscono una parte fondamentale dell’intera comunità e svolgono un ruolo cruciale: impollinano piante che nessun altro impollinerebbe. E se scompaiono, da quell’ambiente sparirà anche la pianta da loro impollinata. E viceversa.
Se la tutela della biodiversità è la chiave per sostenere la vita sulla Terra, allora salvare le specie comuni non basterà. Bisogna proteggere anche quelle rare. E questo ci porta a un altro punto importante.
Negli ultimi anni proprio le api sono state, ahi loro, protagoniste di titoli di giornali: sono minacciate infatti dalla crisi climatica, dall’arrivo di parassiti e specie aliene, o dall’uso di pesticidi come i neonicotinoidi. Un quadro che si inserisce perfettamente nella cornice della sesta estinzione di massa, in cui gli insetti non se la passano affatto bene. E questo possiamo verificarlo anche da soli: sui nostri parabrezza si spiaccicano meno insetti di quanti se ne spiaccicano solo 40 anni fa. Basta ricorrere alla memoria di qualche generazione fa per un esperimento del genere. Ma tornando alle api, quando vengono lanciati allarmi come quelli citati, la soluzione offerta per salvarle viene offerta su un piatto d’argento ed è: adottare un alveare. Una soluzione semplice e banale, quanto di fatto inutile se si vuole davvero salvaguardare la biodiversità. Adottando un alveare di quelli proposti, infatti, si contribuisce semmai alla conservazione della specie Apis mellifera, la più comune e diffusa in tutto il mondo, da noi allevata e con cui abbiamo un rapporto antichissimo. Solo una delle circa 20.000 specie di api che ronzano su questo pianeta che chiamiamo Terra. Piuttosto potremmo provare a lasciare una striscia del giardino incolta, a far fiorire le nostre fioriere sul balcone con specie autoctone care agli impollinatori locali, e non importate da chissà dove solo per bellezza. O ancora, potremmo fornire alle api e altri impollinatori anche un luogo dove riprodursi, magari un bug hotel.