SOCIETÀ

Il razzismo fa male alla salute di chi lo subisce

Una donna bianca incrocia per strada un ragazzo nero e istintivamente stringe la propria borsetta. A differenza di quelle bianche, un gruppetto di ragazze nere che stanno facendo shopping al centro commerciale sono seguite a vista dal personale della sicurezza. Allo sportello di un ufficio pubblico, alla persone di colore ci si rivolge direttamente con il “tu”. Sono esempi di microagressioni razziste, cioè piccoli comportamenti, “offese, insulti, umiliazioni, invalidazioni e comportamenti offensivi quotidiani che le persone sperimentano nelle interazioni quotidiane” sulla base, in questi casi, del colore della propria pelle.

Le microagressioni sono studiate dagli anni Settanta, quando il termine è stato introdotto per la prima volta dallo psichiatra americano Chester Pierce, e fanno parte di quello che viene chiamato minority stress, cioè lo stress psicologico sperimentato da chi all’interno di una comunità fa parte di una minoranza discriminata per il colore della propria pelle, per il proprio orientamento sessuale o per l’identità di genere, per una disabilità o per il semplice aspetto esteriore non conforme. Non sempre le microagressioni sono intenzionali, perché la persona che le compie potrebbe essere inconsapevole che si sta comportando in modo omofobo o razzista. Ciononostante, producono un stress psicologico importante in chi le subisce.

Nel caso delle microagressioni razziste, un recente studio condotto dal gruppo di ricerca guidato da due psichiatri, Negar Fani e Nathaniel Harnett, ha evidenziato che producono un impercettibile cambiamento della struttura del cervello delle persone nere. Di conseguenza, le persone che subiscono microaggressioni razziste nella loro vita quotidiana sono soggette a rischi per la salute maggiori rispetto a chi non le subisce.

Microagressioni: insulti, umiliazioni, invalidazioni e comportamenti offensivi quotidiani che le persone sperimentano nelle interazioni quotidiane

Razzismo e disuguaglianza di salute: una lunga storia

Come scriveva poco più di una decina di anni fa su Salute Internazionale Gavino Maciocco, decano dello studio delle disuguaglianze di salute in Italia, il razzismo ha spesso avuto un ruolo nella storia della medicina. Basti ricordare gli esperimenti di eugenetica condotti dal medico nazista Josef Mengele nei campi di concentramento. Oppure allo sfruttamento delle popolazioni indigene africane da parte degli imperi europei durante il periodo coloniale, al punto che una delle maggiori studiose dell’argomento, Helen Tiley, ha intitolato un proprio libro Africa come laboratorio vivente. Oggi, sottolinea Maciocco, non si vedono più operazioni così esplicitamente razziste, perché “il razzismo di oggi è il razzismo ‘strisciante’, non doloso, più sottile, meno visibile, spesso neanche consapevole, ma non per questo meno pericoloso e potenzialmente distruttivo”.

Il gruppo di Fani e Harnett ha mostrato che questo razzismo strisciante delle microagressioni aumenta l’attività di una specifica area del cervello di chi lo subisce. In particolare, hanno misurato un aumento dell’attività della corteccia prefrontale, che è  diretta conseguenza dell’attivazione di strategie per gestire le microaggressioni, soprattutto nella repressione delle proprie emozioni per evitare di reagire. Le persone oggetto di microagressioni razziste, scrivono in un loro articolo pubblicato su The Conversation, “mostrano anche una maggiore attivazione nelle regioni del cervello che consentono loro di inibire e sopprimere la rabbia, lo shock o la tristezza, in modo da poter elaborare una risposta socialmente accettabile”.

 

Una questione di energia e protezione

Il carico di stress sopportato da queste aree del cervello, secondo il team di ricerca, sottrae ad altre aree una consistente quantità di energia. Se questa situazione è prolungata nel tempo, per esempio perché si è esposti ogni giorno a microagressioni, senza che ci sia un tempo prolungato di riposo da questi contesti, provoca un sovraccarico. È un po’ come se ci fosse una parte del cervello che funziona sempre al massimo, sottraendo energie altrimenti destinate ad altre funzioni. Questo meccanismo è descritto in letteratura scientifica come weathering, un termine coniato dalla ricercatrice Arline Geronimus una quarantina di anni fa. Con questo termine, che rimanda all’effetto delle intemperie sulle cose, Geronimus voleva descrivere gli effetti corrosivi dell’oppressione sistematica che subiscono i corpi delle persone marginalizzate. Studi successivi hanno dimostrato che il fenomeno del weathering è alla base di un invecchiamento accelerato, una maggiore vulnerabilità della salute dei soggetti e una morte precoce.

Weathering è un termine coniato per descrivere gli effetti corrosivi dell’oppressione sistematica che subiscono i corpi delle persone marginalizzate

In questa cornice, lo studio di Fani e Harnett mostra che l’effetto del weathering causato dalle microagressioni razziste è evidente e si riscontra in una graduale degradazione della struttura cerebrale, soprattutto nella cosiddetta materia bianca che serve da struttura di trasporto delle informazioni all’interno del cervello. Questa degradazione colpisce in particolare la mielina che protegge gli assoni, una componente dei neuroni cerebrali che trasmette impulsi. Una minore protezione offerta dalla mielina agli assoni può compromettere i percorsi per la trasmissione degli impulsi nel cervello, una condizione che è noto può portare a una serie di comportamenti autodistruttivi, come per esempio l'utilizzo di droghe oppure l’emotional eating, cioè la pratica di utilizzare il cibo come strategia per affrontare il disagio emotivo.

 

Primo passo: riconoscere il problema

Gli studi presentati da Fani e Harnett mostrano concretamente come un comportamento talvolta inconsapevole, frutto di un condizionamento sociale e culturale come il razzismo delle microagressioni, può avere effetti indiretti molto significativi per la salute di chi appartiene a una minoranza discriminata. Gli stessi psichiatri sottolineano che questi loro studi si aggiungono a una vasta letteratura che dimostra come le minoranze discriminate presentino maggiori rischi per la propria salute per il solo fatto di appartenere a questa o quell’altra minoranza. Ne è un esempio lampante la sproporzione con cui, negli Stati Uniti, le comunità nere, indigene e di colore hanno subito la pandemia di Covid-19. Lo dimostrano i dati raccolti dal progetto Covid Racial Data Tracker il Centro per la Ricerca Antirazzista dell’Università di Boston in collaborazione con il Covid Tracking Project.

Per Fani e Harnett il primo passo è riconoscere l’esistenza del problema: il razzismo, e in generale la discriminazione, hanno un effetto negativo sulla salute delle persone. Il primo passo necessario è quello di rendersi conto dei bias che anche inconsciamente abbiamo nei confronti di determinati gruppi di persone. Nei casi di microagressione, infatti, è spesso la mancanza di consapevolezza a perpetrare una discriminazione inconsapevole. Le cui conseguenze sulla salute vanno però al di là dell’atto razzista o discriminatorio in sé. Per questo motivo, le istituzioni sanitarie dovrebbero essere in prima linea per l’identificazione di questi angoli ciechi e la messa in campo di strategie per eliminarli.

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