SOCIETÀ

Il rebus internazionale turco e le sanzioni contro Erdogan

Lo schema si ripete da anni: Turchia da un lato, resto del mondo dall’altro, in un complesso e fluido assemblaggio di alleanze e ostilità, a intensità variabile, del tutto funzionale alle strategie geopolitiche imposte da Recep Tayyip Erdogan, “sultano” della mezzaluna turca, al potere dal 2014. Dagli Stati Uniti all’Unione Europea (soprattutto Francia, Grecia e Cipro), dai rapporti con la Russia al Medioriente (in particolare Libia, Israele, Iran, Egitto), fino alla Cina: tutti scenari dove Ankara si trova a svolgere un ruolo cruciale, in un alternarsi di posizioni, a volte con, più spesso contro, ma comunque snodo imprescindibile per chi si propone di risolvere, o quantomeno di affrontare, le situazioni di crisi. Ma la Turchia non teme d’essere isolata, né politicamente né diplomaticamente. Erdogan fa la voce grossa con chiunque, interviene a gamba tesa, provoca, minaccia, non teme conseguenze, almeno all’apparenza. Pretende di sedere ai tavoli che contano delle trattative. Persegue a qualsiasi costo i propri obiettivi: assoluta indipendenza (militare, energetica), espansione territoriale (Cipro, Grecia) e ruolo di guida del mondo sunnita, ergendosi, soprattutto nei paesi occidentali, a “difensore dei musulmani”. E proprio quel “a qualsiasi costo” espone spesso la Turchia alle reazioni della comunità internazionale, che tenta, come può (e vedremo più avanti che spesso non può molto), di porre un argine alla dirompente prepotenza del “sultano”. A volte sono richiami formali, in altri casi si arriva allo scambio di accuse e di invettive (come accaduto recentemente con il presidente francese Macron). Ma quando lo spazio per il dialogo si fa troppo angusto, ecco scattare i provvedimenti, le sanzioni. Com’è accaduto due volte soltanto negli ultimi giorni. 

Sanzioni americane per l’acquisizione degli S-400 russi

L’ultimo fronte di scontro a essersi, per così dire, “irrobustito” è quello con gli Stati Uniti. Lo scorso 14 dicembre il segretario di Stato americano (uscente) Mike Pompeo, dopo oltre un anno di avvertimenti,  è passato alle vie di fatto, annunciando sanzioni contro l’agenzia governativa di Ankara che si occupa dell’acquisto degli armamenti (Sbb) come ritorsione per l’acquisizione del sistema missilistico russo S-400. La notizia non è da poco, almeno nella forma: è la prima volta nella storia che gli Stati Uniti applicano nei confronti di un Paese alleato (e membro di peso della Nato, con il secondo esercito più numeroso, circa 400mila effettivi) il CAATSA (Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act), vale a dire la legge federale in base alla quale la Casa Bianca può imporre sanzioni a qualsiasi paese che concluda affari (“significant transactions”) con Russia, Iran e Corea del Nord. Alleati nella Nato, ma divisi da una profonda diffidenza. La vicenda non è recente, risale addirittura all’amministrazione Obama, che si rifiutò di fornire a Erdogan le componenti di difesa del sistema Patriot (in uso nei paesi della Nato). Un rifiuto che nasceva dalla pretesa di Ankara di produrre autonomamente, nel futuro, i missili. Una “cessione” di autonomia che gli Stati Uniti non avrebbero mai potuto concedere. Quindi Erdogan, com’è nel suo stile, ribaltò il tavolo: con la firma, l’11 aprile 2017, di un accordo con Mosca per l’installazione sul territorio turco del sistema di difesa missilistico russo S-400. Un affare da 2,5 miliardi di dollari. Uno schiaffo per gli Stati Uniti e per la Nato (la Turchia ne è membro dal 1952). Come ritorsione, gli Stati Uniti sospesero immediatamente Ankara dalla partecipazione al programma di produzione dei caccia F-35 (temendo che segreti tecnologici e militari potessero essere svelati). «Il sistema di difesa interna è una decisione sovrana della Turchia che non può essere messa in discussione da Washington o dagli altri alleati militari in Occidente», replicò Erdogan. Durante il G20 di Osaka, nel 2019, Donald Trump pensò addirittura di utilizzare il frangente come pretesto per attaccare il suo predecessore: «È un guaio, ma non credo sia colpa di Erdogan», dichiarò dopo un colloquio con il presidente turco. «La Turchia voleva acquistare i Patriot, ma gli è stato impedito: ha ricevuto un trattamento scorretto». Pochi mesi sono stati sufficienti a Trump per cambiare idea, che la questione era ben più seria. E le sanzioni, a pochi giorni dal termine del suo mandato, vengono anche lette dagli analisti come un tentativo di prevenire e in qualche modo depotenziare una mossa che Biden, con ogni probabilità, avrebbe comunque fatto. «Nonostante i nostri avvertimenti la Turchia è andata avanti con l’acquisto dalla Russia e il collaudo del sistema S-400», ha dichiarato Pompeo in un post pubblicato su Twitter. «Non tollereremo transazioni significative con il settore della difesa russo». Un messaggio esplicito a India e Qatar, che stanno valutando l’acquisto degli S-400.

Impatto limitato nel breve periodo

Dunque sanzioni. Ma in cosa consistono? Si tratta del divieto di esportazione di tutte le licenze americane nei confronti dell’agenzia delle industrie di difesa turche (SBB) e il divieto di visto per il suo capo, Ismail Demir, e per tre funzionari dell’ente. Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha già dichiarato che nulla cambierà nell’attuale strategia di difesa della Turchia: «Se avessimo ritenuto opportuno dover fare un passo indietro l’avremmo già fatto prima», ha precisato, ribadendo che l’accordo S-400 con la Russia non sarà modificato. «Queste sanzioni sono sbagliate sia legalmente sia politicamente: ora stiamo valutando l'impatto di queste sanzioni in modo molto dettagliato. E prenderemo provvedimenti di conseguenza». Il presidente Erdogan ha definito l’imposizione delle sanzioni «un atto di scortesia nei confronti di un partner molto importante della Nato». Il ministro della Difesa, Hulusi Akar, ha toccato un punto nevralgico: «Le sanzioni su un membro della Nato compromettono lo spirito dell’alleanza e minano profondamente la fiducia fra alleati». Secondo Hakki Ocal, editorialista del Daily Sabah, quotidiano turco filo-governativo, l’amministrazione americana sta tentando di “punire” la Turchia per il suo tentativo di diventare un paese indipendente: «Per gli Stati Uniti un alleato dipendente è un buon alleato. Se cerchi di diventare indipendente, sei un cattivo alleato». Anche Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo, ha definito il provvedimento “illegittimo”. 

Il colpo, tuttavia, potrebbe far più male nella forma che nella sostanza. Nel senso che l’embargo sarà parziale, senza toccare direttamente le industrie militari statali e il settore privato. Come spiega il Financial Times: «Le sanzioni sono state elaborate per essere più miti possibile. Abbastanza per neutralizzare la rabbia del Congresso americano nei confronti di Erdogan, ma evitando al tempo stesso gravi danni alle estese relazioni militari Usa-Turchia». Tutto dipenderà dalla durata delle sanzioni. Secondo un’analisi pubblicata dall’agenzia Agc News, «le sanzioni danneggeranno gravemente l’industria della difesa turca nel medio termine di due-tre anni, anche se il loro impatto a breve termine nel prossimo anno potrebbe essere limitato». Tuttavia, informa ancora Agc citando il rapporto 2019 della “Defense and Aerospace Industry Manufacturers Association”, l’industria della difesa turca dipende ancora fortemente dalle importazioni dagli Stati Uniti: 1,4 miliardi di dollari di acquisti, pari al 45% del totale, così ripartito: «648 milioni di dollari di importazioni destinati all’aviazione turca, 564 milioni di dollari all’aviazione civile, 107 milioni di dollari ai sistemi terrestri». E dipenderà anche da cosa deciderà di fare Joe Biden, che ha più volte definito Erdogan “un autocrate”, lasciando presagire un atteggiamento assai più duro rispetto a quello adottato da Trump. Ma l’atteggiamento della Turchia resta minaccioso. «Gli Stati Uniti devono scegliere», ha twittato il vicepresidente Fuat Oktay: «Vogliono rimanere alleati della Turchia o rischiare la nostra amicizia unendo le forze con i terroristi per minare la difesa del suo alleato Nato contro i suoi nemici»? 

In Europa passa la linea morbida 

Parallelamente, ma in modo più defilato, anche il Consiglio Europeo ha rotto gli indugi, annunciando nuove sanzioni contro la Turchia, accusata formalmente di “provocazioni” e di “azioni unilaterali” nel Mediterraneo orientale, con navi militari inviate nelle acque territoriali di pertinenza della Grecia (a ridosso dell’isola di Kastellorizo) e di Cipro con l’intento di sondare la presenza di gas (e nel tentativo “muscolare” di ostacolare la realizzazione del progetto del gasdotto EastMed). Chiare le motivazioni, molto meno la reale entità delle sanzioni, che appaiono assai blande, nonostante le richieste battagliere avanzate da Francia, Grecia e Cipro. Il Consiglio Europeo si è di fatto limitato a chiedere “una lista aggiuntiva” a carico di “entità e individui”, dopo quanto deciso sempre dall’Ue nel novembre 2019, come ritorsione per le attività di perforazione non autorizzate della Turchia. Una black-list di soggetti e compagnie che a vario titolo sono state coinvolte nella facciata delle operazioni di trivellazione: come se non esistesse un “mandante”. Insomma, ha prevalso la linea morbida. Quella che ha spinto Erdogan a sottolineare, quasi con entusiasmo, la sconfitta dei Paesi più agguerriti: «Il vertice Ue che si è tenuto ieri non ha soddisfatto le aspettative di alcuni Paesi, perché le loro aspettative non erano giustificate. I Paesi Ue di buon senso hanno sventato il piano».

Il nuovo ruolo della Grecia

Dunque il risultato? Nessuno. Il drappo delle sanzioni non funziona (almeno finora, almeno così limitate). Le trivellazioni nel Mediterraneo orientale proseguono come prima. Come avanza il programma di aggiornamento del sistema missilistico S-400. La Turchia continua ad andare dritta per la sua strada, abile com’è a giocare su più tavoli contemporaneamente, una volta alleata, un’altra provocatoriamente in contrasto, tra minacce, ammiccamenti, allusioni e bluff. A sfruttare il suo ruolo, geografico e culturale, di “cerniera” tra Occidente e Oriente. L’Europa tentenna (come spesso accade) in attesa dell’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti. Sarà Biden a decidere se e fino a che punto continuare a tollerare i capricci del “sultano” o se è giunta l’ora di spostarla quella cerniera. Magari portandola, almeno da un punto di vista militare, in territorio greco, soprattutto a Creta, dove potrebbe sorgere la nuova base americana, qualora si dovesse decidere di chiudere (in caso di rottura con Ankara) quella turca di Incirlik. L’asse Washington-Atene è più di un indizio. Prova ne sia la richiesta di acquisto, da parte della Grecia, di sei caccia F-35 di quinta generazione, che potrebbero essere consegnati alla Grecia entro la fine del 2021. La fornitura (da completare “a tempo debito”) ne prevedrebbe altri 12-18. Ai quali sommare i 18 caccia “Rafale” che Atene ha già ordinato alla Francia. Una Grecia che si propone sempre più apertamente, da un punto di vista militare ed energetico, nel ruolo di “sentinella del Mediterraneo”.

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